Evitare che Conte vinca di nuovo: un dovere morale per il Napoli
di Errico Novi
Sembra Gioele Dix. Se non fosse che alle sue gag non ride nessuno, Antonio Conte potrebbe tranquillamente sdoppiarsi in una luminosa carriera da intrattenitore. Tale e quale il personaggio comico «sempre perennemente incazzato come una bestia». Si mostra intemperante persino quando va a ricevere un premio, com’è successo al Viareggio Sport. Certo pochi protagonisti del nostro calcio sanno essere sgradevoli come lui. Le provocazioni indirizzate al galantuomo Rafa Benitez sono l'esempio a noi più vicino. Ma come dimenticare, tanto per dirne una, l'aggressione all'arbitro di Juventus-Genoa dello scorso campionato? Quello che proprio non va giù del tecnico bianconero sono certe spacconate tipo «quest'anno chi non vince ha fallito» oppure «se poi alla fine si perde bisogna prendersi le proprie responsabilità», tutte galanterie inflitte a Benitez dopo Juve-Napoli. Questa visione sanguinaria della vittoria e della sconfitta è tipica dei bulletti di strada. Di quelli che ti guardano dritto negli occhi sperando di incutere timore e sputano per terra per mostrare disprezzo. Allora, a parte il rigetto che questo dovrebbe provocare persino nei tifosi della Vecchia Signora, il fatto è che tutta questa roba è l'esatto contrario dello sport. Lo sport non è guerra, casomai ne è una metafora pacifica. Tanto è vero che la manifestazione agonistica così come ancora oggi la intendiamo nasce con le Olimpiadi della Grecia classica: una sospensione delle armi. Il discorso o muori o vinci va bene per i videogiochi tipo Tekken 3, non per il calcio. Perciò Conte è proprio il contrario dello spirito sportivo. È un provocatore di strada, appunto.
Le vittorie della Juventus sono sporcate dall'irricevibilità di questo linguaggio anche quando sono tecnicamente meritate. Non ricordo un nostro campione che si sia mai espresso come Antonio Conte. Maradona è stato il più grande di tutti i tempi e non si è mai sognato di irridere un avversario appena battuto. Qualcosa di piuttosto volgare ci capitò di sentirla dire due anni fa da Franco Colomba, allora allenatore del Parma, subito dopo aver strappato un'incredibile vittoria al San Paolo: radunò i suoi nel cerchio di centrocampo a fine partita e si lasciò sfuggire un «gli abbiamo spaccato il c...» perfettamente intercettato dalle riprese tv. Passò l'intera domenica a chiedere scusa e a ricordare che «sono cose di campo». A scusarsi o a riflettere su se stesso, Antonio Conte non ci pensa proprio. Lui tira dritto sulla linea del bullismo. Il Napoli ha un dovere: arrivare prima di lui a fine stagione. Uno come l'allenatore della Juventus non può più vincere. Ha passato il segno. Se questo è ancora uno sport e non una disfida tra guappi, non deve passare il messaggio che chi aggredisce gli altri ha ragione. Lo si deve al calcio, alla funzione di pedagogia sociale che il calcio ancora esercita, pur tra le mille ombre che si porta dietro. Nessuno è perfetto, nessuno è immacolato, nessuno può ergersi a maestro di morale. Ma proprio per questo non si può lasciare che sia proprio Conte a impartire lezioni.