Ora che abbiamo scoperto di saper vincere, possiamo smettere di insultare de Laurentiis?
di Errico Novi
È andata, sì. Come in un sogno. Come in fondo non speravamo: battere la Juve e spianarsi la strada per il terzo scudetto, segnare al 93esimo più o meno come Kalidu nel 2018 ma senza l’incubo di Orsato dietro l’angolo, e per giunta dopo una simulazione del solito Cuadrado. “In quel momento tutto sembrò perfetto”, recita la voce narrante di un film Disney: ecco, in questo momento tutto è perfetto. Cosa ci manca per prendere questo sogno e metterlo in cornice con i nostri ricordi più belli, quelli di quei 7 anni incantati? Niente: manca una vittoria sulla Salernitana e una Lazio che non espugna San Siro, poi più nulla. Poi forse realizzeremo anche un’altra conquista: oltre al tricolore, forse ci renderemo conto una volta per tutte di quanto abbiamo sbagliato a insultare de Laurentiis in questi anni. Di quanto quei cori ignobili, l’epiteto “pappone”, e altri anche peggiori, siano stati non solo vigliaccamente ingiusti, ma anche patetici.
In fondo quello che non ci piaceva di de Laurentiis era la normalità dei suoi successi: programmati, progressivi, costruiti sul buonsenso, sulla managerialità un po’ casereccia, un po’ a conduzione familiare ma forse proprio per questo ammirevole. Pochi mezzi ma usati bene. E noi a dargli del pappone. In fondo non ci piace, questa normalità, perché ci batte in testa. Ci ricorda che vincere a Napoli è possibile. E quindi, che quando la nostra città frana non è per un destino ineluttabile, per l’avidità di qualche politico o per la malapianta criminale: è anche perché siamo noi che “non ci crediamo”, non programmiamo, non facciamo comunità, non guardiamo al futuro ma preferiamo abbandonarci al solito fatalismo nichilista.
Aurelio de Laurentiis, con il suo Napoli costruito mattone su mattone, ci ha messo di fronte allo specchio del nostro fallimento collettivo, e perciò lo abbiamo chiamato pappone. Ma la vittoria meravigliosa di Spalletti e dei suoi ragazzi è una favola che aiuta anche a cancellare l’astio, che ci riporta alla nostra passione più pura e ci libera dal veleno di quell’aprile 2018, di quello scudetto negato dalla solita Juve capace di appararsi con la sua inesorabile indecenza. Ci riconcilia col calcio, questo trionfo, e forse anche con noi stessi, con la possibilità di successo che la nostra Napoli ancora conserva dentro di sé.
Un’ultima cosa, soprattutto per chi, come me, c’era, per chi ha vissuto l’87 e poi, soprattutto, il ’90. Ricordate? Dopo, Napoli si fermò. Restò come imprigionata in quel momento irripetibile. Di lì a poco, poco dopo l’1a 0 alla Lazio che ci laureò Campioni d’Italia per la seconda volta, sarebbero venuti i fischi dell’Olimpico all’inno argentino, l’“hijos da puta” urlato da Diego in mondovisione e la squalifica per doping che nel campionato successivo si ricordarono improvvisamente di comminare al Nostro Eterno Eroe, quei frevaioli alla Matarrese con gli avevano perdonato la vittoria dell’Argentina sull’Italia in semifinale. E poi… e poi, una brutta mattina di aprile, Diego prese Claudia, Dalma e Gianina e scomparve dal nostro lunghissimo sogno. E poi Napoli si sveglio senza di lui, orfana del Soprannaturale. E poi per anni e anni finimmo seppelliti dalla mestizia: la crisi dei rifiuti, la crisi economica del post tangentopoli che noi a Napoli pagammo di più perché la politica capace fin lì di “occultare” con l’assistenzialismo le crisi precedenti era stata rasa al suolo.
E quindi la fuga di tanti giovani brillanti andati a trovare fortuna in altre città e in altri Paesi. E oggi chiunque abbia assistito all’epopea del secondo scudetto e fa il conto degli amici di allora rimasti a vivere a Napoli, vede che sono due, al massimo tre ogni dieci, non di più.
Ecco: è come se un piccolo sprazzo di luce filtrasse dalla finestra chiusa sulla nostra storia, e interrompesse la mestizia in cui Napoli è precipitata da allora, da quando Diego ci ha lasciati. Non perché si possa tornare indietro, ma perche forse il nostro terzo scudetto può annunciare una storia nuova: senza assistenzialismi, senza classi dirigenti rapaci, ma con l’umiltà di ripartire da quello che ora siamo. E cioè una città aggrappata al turismo, con tanti limiti ma anche con una energia ancora da liberare. Vediamo se la storia della città si riaccende insieme con quella dei nostri scudetti. E celebriamo il nostro trionfo con l’orgoglio di riscoprire quello che siamo davvero: non una città di falliti che deve odiare e insulare de Laurentiis per non fare i conti con se stessa ma una Napoli che si ricorda di saper vincere, di non aver mai smesso di saper vincere.