E se dallo scudetto noi napoletani imparassimo che esiste il futuro, non solo la bellezza fatale di Partenope? (da “Il Dubbio”)
di Errico Novi
Scena finale: il professor Bellavista è in auto con l’imprevedibile amico milanese, Cazzaniga. Sono profondamente immersi nel traffico di Napoli, diciamo pure paralizzati. Il filosofo peripatetico inventato da quella meraviglia che porta il nome di Luciano De Crescenzo rivela: «Io credo che in questo mondo pieno di missili e di bombe atomiche Napoli sia ancora l’ultima speranza che ha l’umanità per sopravvivere».
Sono passati quasi quarant’anni dal film, da Così parlo Bellavista, persino più dei 33 trascorsi dal secondo scudetto del Napoli, eppure quella frase è attuale, e può essere arricchita: Napoli è anche una delle ultime speranze che il cosiddetto calcio moderno, certamente quello italiano, ha per sopravvivere alla propria bulimia. Lo ha dimostrato la squadra di Luciano Spalletti con la straordinaria impresa suggellata giovedì sera a Udine, dove ha conquistato il punto decisivo per il tricolore. Il Napoli vince senza avere debiti con le banche, dopo due stagioni di lieve affanno per via della Champions mancata, ma senza aver dovuto mettere a rischio la stabilità, tante erano le riserve di bilancio accumulate in 18 anni di gestione de Laurentiis. Vince, il Napoli, mentre i debiti della squadra italiana più titolata, la Juventus, si contano sempre nell’ordine delle centinaia di milioni, e mentre le proprietà di Milan e Inter restano in bilico. Vince e dà l’esempio non solo in Italia: giornali come il Guardian celebrano da mesi il miracolo di una supersquadra costruita con le intuizioni del ds Giuntoli, senza farsi ricattare dalle pretese dei grandi procuratori.
Ora, se volete, Napoli vince anche un po’ a dispetto dei napoletani, che in grandissime percentuali, fino all’estate scorsa, riciclavano l’hashtag # A16, un invito a de Laurentiis affinché imboccasse l’autostrada che dal Vesuvio porta a Bari e si dedicasse solo al club pugliese, di cui pure è proprietario, sollevando finalmente Napoli dal peso della sua insopportabile presidenza. È noto come autentici pilastri del terzo scudetto partenopeo siano stati accolti fra slogan che definire di scherno sarebbe eufemistico. Gli ultras giocarono sul nome del difensore coreano Kim, che coincide con quello di una marca di sigarette, storpiarono il portiere Meret in Merit e fecero uno striscione da vecchio contrabbando, “Tre pacchetti 10 €” (tanto costavano le “bionde” vent’anni fa), con annesso consueto suggerimento: “Pezzente, non parli più: paga i debiti (che come detto de Laurentiis neppure aveva) e sparisci”.
Direte: sono stati sbugiardati alla grande, questi tifosi del Napoli. E infatti. Ma ci sono attenuanti da considerare. Napoli è anarchica. Totalmente. Non ha senso di comunità, a dispetto della vocazione festaiola. È una città di geniali individualismi che non crede e non scommette sul futuro, forse perché la bellezza sulla quale è distesa minaccia sempre di rivoltarsi nell’incubo di un’eruzione, e cosi è meglio il fatalismo nichilista che la programmazione aziendale. Perciò, i successi che comunque nei 19 anni della sua presidenza Aurelio de Laurentiis ha raccolto (tre Coppe Italia, una supercoppa e una sequenza ininterrotta di qualificazioni in Champions o almeno in Europa League) hanno messo i napoletani, di fatto, in imbarazzo. Proprio perché si tratta di successi ottenuti senza follie finanziarie né azzardi, ma con una programmata, intelligentissima politica di crescita e consolidamento, sul piano tecnico e in termini economici.
Certo Adl, secondo l’acronimo con cui lo si liquida a Napoli, ha un pessimo carattere, ed è anche abbastanza dispettoso. Ma i napoletani non si sarebbero attaccati a questi dettagli, fino a dargli sistematicamente del “pappone”, se le conquiste del presidente non avessero ricordato loro che vincere a Napoli è possibile. E che quindi la persistente marginalità di cui la città soffre dev’essere per forza anche “colpa” di chi a Napoli ci vive, non solo il prodotto del solito destino ineluttabile, della solita politica razziatrice. Il Napoli, insomma, ha messo i napoletani di fronte alle loro responsabilità, e i napoletani hanno reagito con una sorta di rimozione, con contestazioni surreali come quelle poco prima ricordate.
Adesso Napoli è campione d’Italia grazie a quel presidente e a questo club tanto disprezzati. Non solo: è appunto un esempio e una speranza di “sostenibilità” per il calcio, non solo italiano. Naturalmente, dire che l’imporsi della realtà, sotto forma di scudetto, sulla verità deformata dello striscione contro Kim e Meret basti da sola a suscitare un’emulazione, uno slancio, una replica del trionfo azzurro in altri campi, be’, forse è ottimistico. Ma qualcosa può avvenire. Deve. Anche perché come ha tragicamente ricordato un omicidio di camorra eseguito proprio nella notte dello scudetto, i guai di Napoli sono ancora terribili.
Può darsi che, dalla vittoria degli azzurri, fiorisca una primavera partenopea. E chissà, forse conta pure il fatto che questo è il terzo scudetto, ma il primo vinto dal Napoli senza l’aiuto del soprannaturale. Con Maradona noi napoletani abbiamo vissuto il più bel sogno della nostra vita, convinti appunto di essere toccati da una mano divina, di D10S, e che dopo non ci sarebbe mai più stato un sogno così. Ora Diego, amiamo dire a Napoli, ha fatto un altro miracolo: ha messo insieme nel giro di pochi mesi il mondiale argentino e lo scudetto partenopeo. Ma se solo ci sforziamo di riconoscere che oltre al divino, c’entra pure la materialissima intelligenza di quello sbruffone di de Laurentiis, magari potremo deciderci a uscire dal nichilismo, a costruire un futuro insperato e godercelo con gli occhi accecati dalla bellezza di sempre.
(da "Il Dubbio")