Napoli-Roma, dolce fu quel 2-2 del 2010: la partita più bella del Tanque Denis
di Boris Sollazzo
Avevo da poco mollato le stampelle. Un brutto incidente in scooter, provocato da un automobilista imprudente, mi aveva polverizzato due centimetri di tibia, spaccato il perone, frammentato la rotula. Due mesi e mezzo di ospedale, la fisioterapia ancora in corso, la paura di non poter più divertirmi su un campo da calcio se non come spettatore. Così avevo vissuto il primo Walter Mazzarri napoletano. Se ancora provo dell'affetto per il mister livornese nonostante il suo addio vigliacco, è per quei risultati straordinari che fece appena arrivato sulla panchina partenopea, una serie di gioie che hanno lenito il dolore fisico e la fatica nel recupero che in quel periodo erano (quasi) tutta la mia vita.
Per me, insomma, quel Napoli-Roma alla fine dell'inverno 2010 era anche un ritorno alla normalità. E anche per quello, per me, fu bellissima.
Partimmo in sette, su un furgoncino a noleggio. Ezio Luzzi, il mio primo maestro di giornalismo, voleva una radiocronaca a due voci per la sua Nuova Spazio Radio. Io, ovviamente, ero quella azzurra. Era da un po' che non ne facevo, pur essendo quella, più ancora del cinema e della scrittura, la mia passione. Proprio quella voce inconfondibile della serie B a "Tutto il calcio minuto per minuto" mi aveva insegnato ad amare la nobile arte del racconto via etere di una partita di calcio. Ancora oggi penso che sia il mio miglior talento. Era una partita difficile: la Roma lanciata verso un possibile scudetto, noi verso un recupero che speravamo potesse persino portarci in Champions League, ma che stava consumando molte, troppe delle nostre energie. In più io andavo a casa mia, ma giocando in trasferta: ero attorniato da giallorossi, tutti giovani e valenti giornalisti (tra gli altri ricordo Matteo Torrioli ed Emiliano Di Nardo), precari come me. Fu un bel viaggio, pur nella tensione di un match importante, pur nel tifo contrapposto. Ci divertimmo, con scaramanzia e prudenza evitavamo l'argomento partita, ci preparavamo alla battaglia. Fino all'arrivo in tribuna stampa. Io, lì, non ci ero mai stato: pur potendo, con il mio tesserino e le mie collaborazioni, non ce l'avevo mai fatta a entrare in quel settore del nostro tempio. Sono troppo tifoso per vederla da lì, il mio posto è sempre stato in curva. Ma il lavoro è lavoro, e allora mi sono fatto forza. Lì, la prima brutta sorpresa: venendo da Roma, accreditato per un'emittente capitolina, vengo messo tra i giallorossi. Piazziamo il mixer, attacchiamo cuffie e microfono, approntiamo i primi collegamenti. Scherziamo ancora, tutti, ma siamo sempre più tesi. I silenzi sono più numerosi degli scambi di battute.
Inizia la partita, inevitabilmente il mio collega romanista ha la precedenza, visto che andiamo in onda a Roma. Il primo tempo è bello, Lavezzi è in palla, Maggio alla fine dei 45 minuti su cross di Quagliarella la incoccia di testa alla perfezione. Miracolo di Doni, un estremo difensore piuttosto scarso che però, come molti altri suoi colleghi, con noi si è sempre esaltato. Intervallo, vedo attorno a me molto nervosismo: i giornalisti di Roma hanno capito che c'è un intruso tra loro; per me, ovviamente, fuori posto sono tutti quelli che mi circondano. "Questo stadio è mio, che ci fanno codesti invasori qui?" mi chiedo. Soffro, lo 0-0 non serve a nessuno, mi sento a disagio e guardo con invidia a pochi metri da me, dove tutti i colleghi dal cuore azzurro possono condividere speranze e paure, mentre io vivo la mia attesa tra le linee nemiche.
Parte la seconda frazione, un disastro. Prima un fallo da rigore piuttosto ingenuo di Campagnaro permette all'armadio Julio Baptista di piegare le mani a Morgan De Sanctis dagli 11 metri, poco dopo è Mirko Vucinic a inventarsi il raddoppio con un rasoterra a giro che lascia di sasso il portiere azzurro. Sembra finita, il giovane e bravo giornalista accanto a me esulta, i miei interventi sono ridotti al lumicino: la storia, come al solito la scrivono (e soprattutto la raccontano) i vincenti. Dei perdenti interessa poco a pochissimi. Io sono tra quelli, sarà per questo che non molti, spesso, hanno voglia di ascoltarmi.
Ma era il Napoli di Walter Mazzarri, il primo, quello del livornese nato con la camicia e che in camicia arrivava al novantesimo, la sua resistenza al freddo era pari solo alla fortuna e alla grinta che esplodevano negli ultimi venti minuti delle partite della sua squadra. E proprio in quel lasso di tempo succede un piccolo miracolo: entra German "El Tanque" Denis e cambia le sorti della battaglia. Già, quell'attaccante volenteroso e impreciso che in tre anni segnò poco più di una dozzina di gol, si scalda e mette piede in campo. E in meno di mezz'ora capovolge il match, giocando probabilmente la sua partita più bella in maglia azzurra. Capisco che sto vedendo qualcosa di soprannaturale quando Rinaudo - sì, lui - prende il pallone, si accentra e dalla trequarti scodella un gioiello di assist filtrante proprio per l'argentino. Palla a mezza altezza, io mi alzo in piedi, con la cuffia sulle orecchie, alzo il tono della mia voce, sono in diretta. In cuor mio temo che il nostro farà meta. Di solito, infatti, su quei palloni si gettava con foga, scoordinato e colpiva la copertura dello stadio. Di Salerno.
Quella volta no, quella volta spara una cannonata a incrociare, da sinistra a destra. Una saetta che gonfia la rete. Esulta, felice, mentre io, sulle frequenze 88.100 FM esprimo la mia gioia con la sobrietà di un commentatore carioca in un derby paulista. Non ci credo: gol così li vedevo fare solo a Careca.
Cambia l'inerzia della radiocronaca: il microfono è mio, i vicini di posto si innervosiscono, sono uno straniero. Ma ora ho degli alleati: in tribuna, sotto i posti per la stampa, molti tifosi fino a quel momento irritati da tutti quei giornalisti giallorossi, capiscono chi sono. Si girano verso di me quando la palla è ferma, mi incitano a non mollare. Sono solo contro tre file di nemici assetati di vittoria, sono un soldato in mezzo alle truppe nemiche, un resitente in una trincea assediata. Ma loro, i tifosi azzurri, sono con me. E gli altri azzurri, quelli in campo, le tentano tutte, ma rimaniamo inchiodati all'1-2. Fino al 44imo. Ancora German Denis, in area. Lui che nella sua esperienza partenopea ci ha fatto vedere anche gol sbagliati a porta vuota - prima di insultare Zapata, pensiamo a quante ce ne ha fatte passare quel ragazzo biondo, comunque amatissimo per il suo attaccamento alla maglia e un impegno sempre straordinario in campo -, ha la freddezza di appoggiare in controtempo la palla, di piatto, sul braccio di Mexes. Rigore.
Secondi interminabili, io devo mantenere la lucidità: sono ancora in diretta. La mente sconvolta da paure inenarrabili: sul dischetto va Marek Hamsik, non proprio un cecchino. Fischio. Rincorsa. Il rumore del pallone in un silenzio irreale. Il numero uno giallorosso intuisce, sfiora la sfera. Incrocio dei pali.
Gooooooooool, goooool, gooooool, goooool! Mi getto sul tavolo davanti a me, descrivendo alla radio quel sogno. I decibel sono altissimi, in preda a convulsioni di gioia mi lancio all'indietro, poi mi alzo, non smettendo di descrivere quell'entusiasmo straripante. Sento il sorriso sotto i baffi del direttore Luzzi, Luca Svizzeretto in studio che, da amico fraterno, si preoccupa della mia salute. A quel punto li vedo: mentre tutti gioiscono e si abbracciano rivolti verso i nostri eroi, una decina di supporters azzurri che sono nella tribuna sotto il settore riservato alla stampa danno le spalle al campo. Indicano me, ed esultano. E io, alla radio, urlo "questo gol è vostro". E li indico. Una scena d'amore degna di un film. A metri di distanza, a gesti, si parlano degli sconosciuti. Loro vogliono esultare con me, con chi aveva difeso l'onore azzurro, secondo loro, in mezzo agli avversari. Salgo sulla sedia, perché mi vedano meglio e io possa guardare loro, in tutta la loro bellezza. Stacco il microfono dal jack, di netto. Quasi lo strappo, un grave errore per un professionista. Dall'altra parte, mi diranno, si sente solo silenzio per qualche secondo. Il mio collega romanista, affranto ma professionale e solidale, mi aiuta a riattaccarlo. A me tremano le mani, sono ebbro di felicità. Due a due. A Roma, in studio, non si sono arrabbiati per quel "buco", nonostante sia il peggior incubo di chi sta dietro a un microfono. Tutti, direttore, colleghi e ascoltatori hanno capito. Anzi, quel momento di buio l'hanno riempito con la loro fantasia. Doveva esserci, perché tutti partecipassero attivamente a quella magia. Alcuni, ancora oggi, sono convinti che io lo abbia fatto di proposito.
E allora sì, lo dico con un filo di presunzione: quel giorno me la sono giocata anche io Napoli-Roma. E una piccolissima parte di quei gol è anche mio.
P.S.: Napoletani e romanisti sanno volersi bene. Con i miei colleghi e amici giallorossi tornammo su quel van. Non tentarono di abbandonarmi al primo autogrill. Anche grazie a loro fu un pomeriggio speciale.
Perché se sai cos'è davvero lo sport, l'amore puro per una magia, sai viverli al meglio. E a volte un pareggio può emozionarti più di una vittoria.
Detto questo, Rafa, Marek, Dries, José e Gonzalo, niente scherzi. Oggi fateci sognare, senza far prigionieri.