Di Antonio Moschella
Era il calciatore più forte del mondo, fino a quando non si svegliava tutto sudato. Per lui ogni bambino uruguayano appena nato gridava “gooooool”. Ha scritto quello che a mio modesto avviso è il libro che meglio descrive quella passione per un oggetto rotondo che sia su un prato verde sia su un terreno sterrato e pietroso crea un mondo a sé stante, che prende vita da milioni di anime, polpacci e metacarpi in tutto il mondo.
Eduardo Galeano era un saggio che ha saputo come pochi spiegare cosa significhi il calcio. Scrittore poliedrico, mi colpì profondamente quando lo incontrai a Napoli, durante la presentazione di un libro. A quell’epoca la mia tesi di laurea bramava lo schizzo di una penna ardita e sapiente. Mi dovetti accontentare di un minuto nel quale cercai invano di convincerlo a concedermene quindici. Meglio di niente.
Sulla stessa onda di gente come Osvaldo Soriano, José Luis Borges, Roberto Fontanarrosa e Manuel Vazquez Montalbán, Galeano ha fatto storia come l’Uruguay del 1950 che vinse a Rio de Janeiro contro ogni pronostico. Una nazione di appena 3 milioni di abitanti ha avuto in lui e in Mario Benedetti i massimi esponenti della prosa e della poesia nazionale. Ma Eduardo era capace di parlare di politica entrando nelle vene aperte dell’america latina e al contempo di ‘abbassarsi’ al più profano mondo del calcio nel suo ‘Fútbol a Sol y sombra’.
Sarebbe inutile dilungarsi. Preferisco tradurre e citare letteralmente uno dei passi più avvincenti del libro appena menzionato. Il capitolo è composto da due pagine e il titolo è semplice, ‘Il Tifoso’:
“Una volta alla settimana, il tifoso scappa di casa e va allo stadio. La città sparisce e la routine è dimenticata, solamente esiste il tempio. In questo spazio sacro l’unica religione che non ha atei mostra le sue divinità. Durante la messa pagana, il tifoso si moltiplica: raramente dice ‘oggi gioca la mia squadra’, bensì ‘oggi giochiamo noi’. Il giocatore numero dodici sa di essere lui a provocare il vento di fervore che muove il pallone, così come gli undici in campo sanno che giocare senza tifosi è come ballare senza musica. Quando la partita finisce lo stadio resta solo e anche il tifoso torna alla sua solitudine, l’io che è stato noi: il tifoso si allontana, si disperde e la domenica è malinconica come il mercoledì delle ceneri dopo la morte del Carnevale”.