Spalti deserti e cori autoreferenziali, l'anno nero di Fuorigrotta

La crisi del tifo partenopeo è più forte di quella della squadra
  • Di Gianluca Spera

    «Qualcosa mi ha disturbato, non so bene cosa, ma mi ha disturbato», affermava con aria indolente e annoiata Sean Penn nel film di Paolo Sorrentino, “This must be the place”. Lo stesso insidioso tedio deve aver contagiato i tifosi del Napoli, quest’anno in fuga dallo stadio San Paolo. Il crollo delle presenze è inesorabile, l’emorragia del tifo è evidente, nell’ultima partita di Europa League addirittura imbarazzante. Gli spalti del San Paolo desolatamente deserti, con l’eccezione di qualche sparuta minoranza di irriducibili, presente a dispetto dell’aria gelida e della relativa importanza della partita, è uno spettacolo piuttosto deprimente, una ferita sanguinante per tutti. E’ anche un segnale d’allarme, il sintomo di un muto e civile dissenso in atto che prescinde dai risultati poco lusinghieri di inizio stagione ma si ricollega direttamente all’incertezza che circonda il futuro della società azzurra e i progetti veri o presunti, evaporati nel corso di un’estate più nera che grigia.

    Peccato che questi segnali inequivocabili vengano spesso sottovalutati o peggio ancora letti e interpretati in chiave opposta rispetto al loro reale significato. Il “pochi ma buoni”, sbandierato ai quattro venti, è figlio di un assolutismo poco illuminato, mira a dar forza alle proprie tesi più che a fornire una visione fedele dei fatti. E’ innegabile che i fischi, viscidi e meschini, come quelli indirizzati - poi trasformati in scoscianti applausi - prima a Insigne e poi a Marek Hamsik, sono deprecabili quanto e più delle tribune senza spettatori. Le contestazioni, spesso ingenerose e controproducenti, sono il simbolo dell’imbarbarimento progressivo del tifo, ostaggio non dei cosiddetti occasionali ma degli “umorali”, una categoria trasversale di pubblico che include persone insospettabili il cui catastrofismo strisciante, intervallato da momenti di esaltazione, investe tutti i settori dello stadio.

    Però, da qui a magnificare il San Paolo vuoto ce ne passa anche perché, con gli occasionali/umorali in salotto davanti alla televisione, non sale certo la qualità dell’incitamento, delegato ai cori autoreferenziali dei gruppi organizzati.  Anzi, si ha sempre l’impressione che partita e cori procedano su binari paralleli che non si intersecano mai, se non accidentalmente. Le curve non vanno in sincronia. A volte, nella stessa curva, si creano delle lacerazioni. Al resto della gente, orfana del proprio inno, costretta a indossare l’azzurro di nascosto per non essere, nella migliore delle ipotesi, presa in giro, non resta che scandire i nomi dei calciatori insieme allo speaker o urlare a squarciagola al gol del Napoli. Per il resto, lo scollamento è evidente. Il tifo non è coinvolgente perché è volutamente escludente, è riservato ai puristi. Gli altri che si arrangino o restino a casa. Partita dopo partita, cresce una sgradevole sensazione: quella di sentirsi estranei in casa propria, non ammessi al rito collettivo che, fino a qualche tempo fa, era euforia colorata d’azzurro, bandiere e sciarpe esibite con fierezza, melodie armoniose e trascinanti. Oggi dominano i colori scuri e le note basse. Non sono ammessi cori d’incitamento per i calciatori, conta solo la maglia azzurra. Che, però, allo stadio, non si può più indossare. Forse, almeno chi vi scrive, ha capito cosa l’ha disturbato. 

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