Rafa Benitez e la cultura del lavoro in Italia
È tornato o sta per tornare Rafa Benitez. Dopo una clamorosa settimana di vacanza fatta coincidere con la sosta per le nazionali e il consueto incontro tra i migliori allenatori d'Europa tenutosi a Nyon, dove ha ricevuto un premio per le oltre cento panchine in Champions League. Non vedeva la sua famiglia da giugno e ne ha approfittato, per tornare a casa sua, a Liverpool.
Il fatto ha suscitato scalpore e polemiche nell'ambiente napoletano e non solo, considerati i numerosi articoli spesi dai quotidiani nazionali come la Gazzetta dello Sport e volti a trovare in questi sei giorni di pausa un motivo di dissapore con il presidente e di distacco dalla squadra e dalla causa Napoli. E sì che anche lo scorso anno, nella medesima occasione, le ferie che si concedette il tecnico spagnolo furono le medesime. E sì che lo scorso anno, davanti ad un Fabio Caressa sorpreso e che sottolineava l'inusuale (per la serie A) giornata di ferie concessa ai giocatori dopo un turno di coppa e a pochi giorni dal turno di campionato, il buon Benitez rispose che se i giocatori si allenano tutti i giorni e poi stanno via due o tre giorni durante le trasferte e magari hanno dei figli piccoli, rivedranno i loro bambini quando questi avranno già nove anni.
La componente umana, nel mondo del lavoro, è fondamentale. Una persona che si realizza nella vita privata è una persona felice che renderà di più e meglio anche sul posto di lavoro. Diciamoci la verità, questa polemica sui giorni di ferie presi da Benitez non riguarda solo il nostro calcio o la pochezza della nostra stampa, in questa polemica c'è qualcosa di più, in questa polemica si riassume perfettamente la cultura - o meglio non cultura - del lavoro in Italia rispetto a molti altri Paesi della Comunità europea. Dove, guarda caso, le ferie di un allenatore sono cosa normale, buona e giusta.
In Italia dobbiamo essere sempre sul pezzo (sempre che, ahimè, un lavoro ce l'abbiamo). Ci sono aziende, studi legali o di commercialisti nei quali le persone vengono costrette ad invecchiare, lasciando mogli, mariti e figli a casa, godendo del calore familiare o più semplicemente del tempo libero per pochissime ore alla settimana. Conosco ex colleghi di università che piuttosto entrano un'ora dopo la mattina perché tanto sanno che a fine giornata gli verrà assegnato quell'ultimo lavoro che li libererà dalle 20 in poi. E peggio ancora ci sono situazioni in cui i lavoratori rimangono in ufficio anche se non hanno più nulla da fare, perché devono dimostrare attaccamento, serietà. Perché andarsene esattamente alla scadenza dell'orario di lavoro viene considerata cosa poco seria. E magari la mezz'ora in più non la devono nemmeno presentare come straordinario, che scherziamo? Ci sono realtà in cui anche se lavori da cinque o sei anni devi dimostrare di essere serio, di lavorare. Non di lavorare bene o male, semplicemente di lavorare. Dopo anni nella stessa realtà ci si può ritrovare ancora nella condizione di dover dimostrare che. Un principio inquisitorio, di colpevolezza fino a prova contraria. Cose da Medio Evo, insomma. Per non parlare dei colloqui nei quali fanno perdere tempo, dimostrando già dall'inizio poco rispetto della eventuale futura risorsa, oppure pretendono di fissare una data per l'incontro e storcono il naso se non trovano conferme da chi un lavoro già ce l'ha e per forza di cose deve far coincidere varie necessità e urgenze.
Non mi dimenticherò mai la mia amica Elisa Mussi quando, di ritorno dalla sua esperienza londinese, mi disse: "È tutto diverso, pensa che una volta non avevo finito una cosa in ufficio e allora ho pensato di rimanere un po' di più per portare a termine quel lavoro, ma il mio capo mi ha ripreso dicendomi che se alle cinque io non avevo ancora finito e non ero fuori dall'ufficio, c'era un problema: o nella mia efficienza nello svolgere il lavoro oppure nel troppo lavoro assegnatomi".
In Italia, invece, una persona di 54 anni che, dopo tre mesi di assenza, vuole rivedere sua moglie e i suoi figli, viene considerato un lavativo, uno che sta pensando ad altro e che non sposa la causa.
Perché la terra dei cachi è la terra dei cachi.