Insigne, il nostro folletto studia da Ribery
di Boris Sollazzo
Nessuno è profeta in patria. Chissà quante volte lo avrà pensato Lorenzo Insigne, sempre protagonista nei match difficili e in difficoltà in quelli più facili. Forse perché per lui gli avversari sono sempre stati l’ostacolo meno pericoloso. E sì, perché da napoletano, tifosissimo, ha combattuto fin dall’inizio con quel pericoloso mix di aspettative e delusioni che un pubblico entusiasta, esigente e feroce come quello azzurro riserva ai beniamini di casa. Da loro ci si aspetta di più, da loro si vuole il colpo risolutivo, da loro non si vogliono alzate di testa.
Ma con il Magnifico – così hanno ricominciato a soprannominarlo, quando non lo chiamano Lorenzinho – si è esagerato. Aveva chiuso la scorsa stagione, il ragazzo, con una metamorfosi tattica dolorosa e difficile, una convocazione ai mondiali e, soprattutto, la doppietta che ha regalato la Coppa Italia alla sua squadra del cuore. Non che pensasse di essere arrivato, l’attaccante esterno, ma di avere dalla sua parte il pubblico, quello sì. E cosa fa il San Paolo nei preliminari di Champions League, prima partita ufficiale di questa stagione? Ne sottolinea la prestazione opaca e sballata, condita da un’occasione clamorosa fallita, con fischi ingrati. Il nostro, che ricorda bene l’ultima partita ufficiale giocata solo pochi mesi prima, che rammenta quanto lui vi abbia inciso, giustamente non ci sta. E manda a sperdere chi lo contesta.
Apriti cielo. “S’è montato la testa” e “vendiamolo” sono le frasi più gentili gettategli addosso. La Fiorentina prova ad approfittarne, pare, con una quindicina di milioni di euro, alcuni sostengono che anche il Milan volesse mettere su di lui parte del regalo che il Liverpool le aveva fatto per Mario Balotelli. Lui rimane, sono anni che dice che il suo sogno è essere il Totti del Golfo e di vestire, un giorno, la fascia da capitano.
Nel frattempo steccano anche Higuain e Callejòn, Hamsik non perviene quasi mai, Raul Albiòl fa rimpiangere l’ultimo Salvatore Aronica, il portiere Rafael si muove al rallentatore. Per loro neanche un sospiro, i mugugni sono solo per quel folletto di 163 centimetri che forse sbaglia qualche apertura di troppo, che si incaponisce in dribbling e triangoli troppo arditi, ma che si impegna come un pazzo. Tutti vogliono Dries Mertens. Lui, dopo la reazione di stizza, pedala in silenzio. Obbedisce a Rafa Benitez, che gli lascia il campo da titolare, quasi sempre. E per questo il mister viene definito da giornalisti, esperti, ex giocatori e allenatori falliti, circo mediatico che da sempre balla attorno al Napoli, come un incompetente. Lo spagnolo e il napoletano, dati per separati in casa solo pochi mesi prima perché Insigne aveva semplicemente affermato “che era ovvio che in questa nuova posizione segno di meno, però tutti mi giudicano per quante ne butto dentro”. Un’ovvietà, presa da quei fenomeni come la volontà di cambiare posizione. O addirittura maglia. Separati in casa, già. Leggenda metropolitana gustosa come la maglia gettata via dopo una sostituzione (mai avvenuto) o come quella che voleva lui e Callejòn nel pieno di una tale antipatia, personale e sportiva, da non passarsela mai. Ora Insigne e Callejòn si scambiano palloni e posizioni a ripetizione, Don Rafé punta sul numero 24 senza se e senza ma e Antonio Conte già pensa a convocare di nuovo in Nazionale il talento di Frattamaggiore.
Ma qual è il segreto dell’Insigne di quest’anno? Del ragazzo che ha iniziato la stagione nel modo più difficile e che sta prendendo in mano la squadra, da leader e faro tecnico? La maturità personale, tattica e tecnica. Ed è difficile non darne merito al maestro di calcio Benitez, che ne sta facendo una sorta di miniRibery, un trequartista laterale di grande corsa, ottima copertura e piede sopraffino. Rafa, infatti, lo ha strappato al suo destino di numero 10 discontinuo o seconda punta leziosa e indolente, per farne un calciatore universale. Ha capito che l’Insigne di Zeman era un affascinante punto di partenza e non di arrivo, che quei colpi poteva circondarli di una completezza tattico-atletica di alto livello, che la promessa potrebbe diventare fenomeno. E ha trovato, nel ragazzo, terreno fertile. Pochi, alla sua età e con i suoi mezzi, avrebbero affrontato una mutazione così violenta, difficile, decisamente poco gratificante. E forse davvero non avrebbe dato compiutezza alla trasformazione se Prandelli non l’avesse premiata con il Brasile.
Ora Lorenzo è imprescindibile nell’11 azzurro, anche perché non è più solo. Benitez ha capito che non poteva lasciarlo alla sua abnegazione, che poteva e doveva costruirgli attorno una catena di sinistra che lo supportasse, davanti e dietro. Con Zuniga prima e ora Ghoulam ci sono automatismi molto più interessanti e oliati, e dimostrazione ne è stato l’annichilimento di Gervinho di sabato scorso. Continua a essere sfortunatissimo sotto porta, tra legni e contropiedi ben condotti e spenti dalle uscite kamikaze di ottimi portieri. Ma sta capendo che non è mica da questi particolari che si giudica un giocatore come lui.
Adesso tutti parlano del risveglio di Higuain (cinque gol in tre partite), del mostruoso Callejòn (capocannoniere con otto centri), del rinato Hamsik, persino Koulibaly è definito come il nuovo Thuram. Ma la rivoluzione è partita da Insigne. Lui, con la sua crescita, ha innescato l’inversione di tendenza, lui anche nei momenti più difficili di questo inizio stagione tormentato per i napoletani, mai ha fatto mancare impegno e amore per la maglia. E lui, a differenza di chi lo vessa, ha saputo essere autocritico e costruttivo.
Lo vedi da quel tiro a giro alla Del Piero che a Foggia e Pescara era il suo marchio di fabbrica e che ora non cerca più ossessivamente. Ora lui è l'uomo squadra e la squadra ha trovato il suo uomo. Persino il Pipita non lo rimprovera più. Insigne, perdonateci l’umorismo involontario, è cresciuto. E se continua così, senza paura e senza pause e senza fretta, come piace al suo allenatore, nulla gli sarà precluso.
(tratto da Giornalettismo del 5/11/2014)