In Rafa I trust. E il suo esonero mi ha fatto piacere
di Francesco Bruno
Lo so, può sembrare fuori luogo dopo Napoli-Torino, ora che siamo stabilmente nel gruppo in fuga e in lotta per i posti che contano, rimestare nel passato. Ma uno come me, che ha visto l’arrivo di Rafa Benitez a Napoli come la seconda possibilità capitataci nella nostra storia calcistica di poter vincere qualcosa d’importante, non può non dedicare un pensiero alla fine della sua avventura madrilena.
Chiarisco subito che a me questa storia di bollare l’era Benitez a Napoli come un fallimento non piace. Innanzitutto, in due anni abbiamo vinto due coppe. E questo, per una bacheca come la nostra non esattamente sfavillante di trofei, è un record non da poco. La storia di un club, come ricordava Mourinho qualche anno fa, si fa con i tituli, non certo con i piazzamenti in zona Champions. Che vi piaccia oppure no, poi, Rafa è stato probabilmente l'unico, dall’addio di Diego in poi, a difendere a spada tratta Napoli, la sua storia, e a protestare a chiare lettere contro la vergogna dei cori razzisti contro i napoletani, ormai depenalizzati e diventati di moda in qualsiasi partita italiana, pure quella tra scapoli e ammogliati il giovedì sera. Rafa è stato uno che per un anno intero, con fare sornione, ha detto che contro la Juve “ci può stare”. Ha urlato contro il “calcio italiano di merda”, che ha permesso al Parma di tirare a campare grazie alla colletta organizzata dalla Lega di Tavecchio. Ed è stato uno di quegli allenatori che, lo diceva anche gran parte dei suoi colleghi in serie A, solitamente si è abituati a vedere in televisione mentre alzano trofei continentali e intercontinentali.
Il fatto è, però, che all’inizio della stagione scorsa è stato colpito dalla sindrome di Mazzarri. Tutto a un tratto ha iniziato a parlare di cattiva sorte e dell'incredibile forza degli avversari, ad interpretare le statistiche a favore suo e della squadra, ad attuare in modo totalmente imprevedibile il turnover. Dov'era finito il Benitez che il giorno della sua presentazione a Castelvolturno parlava in tre lingue e coinvolgeva DeLa in una mitica conferenza stampa in inglese alla Totò e Peppino? Dov’era il simpaticone che addentava una bottiglietta di plastica per imitare il suo predecessore? Non c'era più traccia della serenità con cui ci aveva convinto che vincere con il sorriso e con leggerezza fosse possibile anche nel nostro campionato. Sembrava Mazzarri, Rafa. E, come Mazzarri, rifiutò il rinnovo da quattro milioni di euro propostogli dal presidente, preferendo continuare la stagione in scadenza di contratto. Quel triste stillicidio (a settembre avrebbe deciso a novembre, e poi a novembre a Natale, e poi a marzo, ad aprile, infine al termine del campionato), quella sensazione di incertezza e precarietà hanno fatto franare il terreno sotto i piedi a una squadra composta in gran parte da giocatori persuasi a giocare a Fuorigrotta dalle sue telefonate.
Ecco, il modo in cui Benitez ha trasformato la sua volontà di andarsene in un ridicolo balletto resta per me una macchia indelebile. Non si possono dimenticare la farsa dell’incontro tra il presidente e il suo procuratore, la conferenza stampa algidamente chiarificatrice a poche ore da Napoli-Lazio e la partenza del giorno dopo di buon mattino per Madrid, con un sorriso distaccato come se nulla fosse accaduto. Sono rafaelita e in Rafa continuo a credere, l'ho spiegato. Ma consentitemi di gioire, oggi, perché la maledizione di Montezine scagliata da Boris Sollazzo ha colpito anche lui.