Un quarto di secolo dalla Coppa Uefa: troppo, ma senza fiducia non c’è futuro
di Errico Novi
Ma ve lo ricordate? Il gol in contropiede a Monaco di Baviera, quelli allo Stoccarda, andata e ritorno, e l’incredibile azione per il 3-0 di Renica alla Juve? Quanti monumenti dovremmo innalzare a Careca per quella Coppa Uefa? Forse è vero: il merito più grande di Antonio de Oliverira Filho è di non essersi mai lamentato con noi. Perché ne avrebbe avuto motivo. Uno così deve avere nella nostra storia lo stesso posto che occupa Di Stefano per i madridisti. Invece la convivenza con Diego nell’Olimpo dei ricordi un po’ lo offusca. Ma davvero, rivedetevi quei gol del nostro unico (finora) vero trionfo europeo: vi convincerete una volta di più che Careca è il centravanti più sublime che il calcio italiano abbia conosciuto. È stato dei nostri, anche lui. Sembra un sogno.
Premessa necessaria. Oggi che fa un quarto di secolo dalla finale di Stoccarda, dalla Coppa Uefa innalzata da Diego, Ferrara e gli altri, è soprattutto il tempo trascorso a fare impressione. Venticinque anni da quella notte al Neckarstadion. Troppi davvero. E con chi vogliamo prendercela? Con chi ci vogliamo arrabbiare? Con Ferlaino che non ha saputo preservare e rinnovare quel tesoro? No, inutile. Forse con la città che non ha saputo trovargli alternative, ecco. Ma invece di cedere al rammarico facciamo un’altra cosa. Un atto di comprensione per tutti gli amici dal cuore azzurro che spesso si lamentano oltre il dovuto. Stamattina li capisco meglio. Penso a questo fatto enorme, a questa cosa che fa impressione solo a dirla: un quarto di secolo. Da allora non siamo più saliti sul tetto d’Europa. Io capisco chi si lamenta. Chi non si fa capace che quell’età dell’oro si allontani nel tempo come un miraggio sempre più confuso. Capisco un po’ di più gli eccessi di impazienza con Benitez, la pretesa di vincere subito. È irrazionale, ma è umana. È la conseguenza di un’attesa troppo lunga.
A questi stessi tifosi però devo dire un’altra cosa, che proprio a rivedere le immagini di venticinque anni fa mi appare altrettanto chiara. Quell’epopea è il frutto di una coincidenza irripetibile, del fatto cioè che con il più grande calciatore di tutti i tempi si sia trovato a Napoli un altro rarissimo genio del calcio, Careca appuntro. Averli visti assieme in maglia azzurra è stata una specie di grazia, diciamo pure un miracolo. C’è voluta questa incredibile combinazione per costruire un ciclo vincente. Non ricapiterà facilmente. Maradona e Careca sono fenomeni unici. Dobbiamo cambiare prospettiva. Smetterla di ragionare come se vincere a Napoli sia scontato. Non lo fu allora. Non lo è oggi. Negli anni Ottanta capitò un fatto straordinario. Oggi non possiamo rincorrere l’illusione di un altro Olimpo di campioni che cali dal cielo. Dobbiamo provare a conquistare il mondo in un altro modo. Con un cammino più lungo, più faticoso. Perché richiede soprattutto pazienza da parte nostra. Quella Napoli era politicamente più centrale negli equilibri del Paese. Quella di oggi è ridotta a periferia. Non sottovalutiamo neanche questo handicap.
Perciò in qualche modo la comprensione per chi si lamenta del troppo tempo trascorso dall’epoca dei nostri trionfi diventa anche esortazione a guardare la realtà. A renderci conto che un altro Diego e un altro Careca non sono dietro l’angolo. E a scommettere invece su chi ci avvicina alla vittoria con la forza dell’ottimismo, Benitez appunto. A chi come Rafa ci insegna che la consapevolezza dei propri mezzi è importante quanto avere in squadra grandi campioni. Dovremo imparare a stringerci attorno agli azzurri e a sostenerli con cieca speranza. Senza lasciarci più avvelenare dal ricordo di trionfi troppo lontani. Se vogliamo viverne altri impariamo a guardare avanti, a costruire il futuro con i mezzi che abbiamo. Perché magari quel futuro, se pure arriverà tra molte fatiche, forse sarà anche più solido di quell’ebbrezza vissuta venticinque anni fa.