Di Antonio Moschella
Sono anni che mi affascina il mito creato attorno alla figura di Marcelo Bielsa, un guru del calcio dal quale moltissimi allenatori, Guardiola su tutti, hanno preso ispirazione per la loro carriera. Poco più di un anno fa ero a Rosario, nello stadio che porta il suo nome, per provare a comprendere cosa significasse la parola calcio in quella città dell’Argentina profonda, dove gli asado si consumano tra una partita e l’altra, dal mattino alla notte scura. Non è un caso che lo stadio del Newell’s Old Boys, la squadra del cuore di Bielsa, porti il suo stesso nome. Ora provate a pensare qual è l’unico stadio nel mondo che porta il nome di una persona ancora viva? Un indizio, si trova sempre in Argentina. Non ci arrivate? Ok, è quello dell’Argentinos Juniors, dedicato a, guarda un po’, Diego Armando Maradona.
La mia trasferta marsigliese aveva come obiettivo quello di raccogliere tutto il materiale possibile per stilare un profilo completo dell’allenatore argentino, che in Francia è stato capace di farsi amare nonostante non potesse mai interloquire direttamente con nessuno, tranne il suo traduttore. Ed è stato proprio da questo sentimento di affetto verso di lui che sono partita per formulare l’unica domanda a me concessa dopo due settimane cercando disperatamente di accreditarmi a quella che potrebbe essere l’ultima sua conferenza stampa all’Olympique Marsiglia. Il siparietto con il povero Fabrice, traduttore improvvisato che prima lavorava in un supermercato, è stato quel minuto virale che inizialmente ha fatto il giro del web. Poi, dopo, Marcelo ha ripreso il suo aspetto serio e mi ha risposto alla sua maniera.
Egli non guarda negli occhi ma arriva dritto al cuore. Con calma, a suo ritmo, scandisce ogni parola come se stesse narrando una poesia e le sue parole hanno lasciato il segno su di me e sui presenti, prima di diffondersi a macchia d’olio sul web. Bielsa non vince un titolo dal 2004, ma è riuscito a farsi voler bene ovunque fosse andato, ed è lì che sono andato a cercare il suo lato più umano, domandandogli se per lui il vero trofeo non fosse l’amore dei tifosi, da lui riconosciuti come gli unici insostituibili nel calcio, rispetto a una coppa vera e propria.
Marcelo, da buon romantico, sveste i panni dell’allenatore di una franchigia calcistica moderna e si dilunga in uno splendido monologo che per me va riassunto in poche parole: “ Tra titoli, onorari ed emozioni, per primo mi prendo le emozioni che il calcio riesce a trasmettere perché sono insostituibili. Stimo i tifosi perché sono loro che costruiscono le emozioni”. Una risposta da tifoso, perché Bielsa non è solo un tecnico ma è un appassionato del calcio e delle sensazioni che questo sport oggigiorno vilipendiato da troppi provoca nel sangue di chi davvero lo ama.
Alla fine della conferenza stampa, Bielsa scappa da una porta secondaria. Il tentativo di incrociarlo è vano, ma a un mio grido lui si gira, sorride e agita la mano destra. In precedenza aveva firmato la fascia di capitano della mia squadra in Argentina, regalatami da dei ragazzi stupendi almeno quanto lui. Poi l’ho visto andar via, lentamente, con la sua tuta blu elettrica. Il mio sogno, e quello di molti altri, è che con l’addio di Rafa possa cambiare tonalità di blu vestire il nostro, quella sfumatura di azzurro tra cielo e mare che un argentino sanguigno come lui onorerebbe fino alla fine, con il suo gioco delizioso e la sua passione così umana da sembrare uno di noi da sempre…
Non succede. Ma se succede...
Gracias, Marcelo.