La sindrome di Peter Pan
di Antonio Moschella
La testa bassa, le gambe che tremano e la lenta caduta sulle ginocchia. Il Napoli è arrivato scarico al rush finale, quello fatto da sfide fondamentali che sanciscono la riuscita o meno di una stagione che dopo poche aspettative, era stata disegnata sotto forma di arabeschi mai dipinti di colore azzurro, con un gioco armonioso che faceva scuola in Europa, elogiato da gente come Pep Guardiola e Gerard Piqué, e trascinato da una passione incontenibile. La stessa passione che adesso non deve capitolare ma deve spingere i ragazzi di Maurizio Sarri a tenere botta. Il secondo posto è un obiettivo fondamentale per il futuro a breve e lungo termine di squadra e società, checché ne dicano i detrattori di De Laurentiis e gli eterni pessimisti.
Ora, con 270 minuti a fare da guado impantanato verso una Champions League diretta, ciò che bisogna evitare è il disfattismo generale, oltre alle lamentele da popolo provinciale, incapace di saper vincere e, ancor meno, saper perdere. Perché, dopo quanto fatto vedere in campo, è inutile e ridicolo parlare di aiuti arbitrali a quella che è probabilmente la miglior Juventus degli ultimi cinque anni. Così come non bisogna puntare il dito contro Rocchi, reo di non aver visto il fuorigioco di Icardi sull'1 a 0 che sblocca l'allarmante partita di Milano. Perché se nel girone di ritorno perdi a Torino, Milano, Udine e Roma significa che il problema è mentale, oltre che fisico. A Firenze, diciamocela tutta, siamo stati salvati da due legni e dopo che solo un errore in comproprietà tra Alonso e Tatarusanu aveva permesso ad Higuain di pareggiare. Per non parlare della scialba prestazione in casa contro un Milan smorto, nella quale avevamo trovato il gol solo grazie a una deviazione fortunosa.
Cercare scuse è da perdenti. È qui che bisogna migliorare, bisogna credere nei propri mezzi prima di sbraitare e urlare al complotto, anche perché la Juve dista ormai 12 punti, non 2. Certo, i gol di Zaza e Nainggolan, arrivati con la stessa beffarda crudeltà in due finali di partita con un pareggio già scritto, fanno rabbia, ma sono anch'essi il riflesso di una mediocrità dalla quale è necessario uscire per fare l'ultimo passo verso la maturità definitiva. Il Napoli quest'anno è quasi diventato grande, ma sotto sotto ha ancora le sembianze di un Peter Pan che si crogiola nella sua indole da scapigliato ribelle, da adolescente degli anni '60. Per diventare grandi serve ancora molto, in primis quella continuità che la rosa corta - qui la responsabilità di De Laurentiis è evidente - e la mancanza di carattere - spicca su tutti la poca rabbia di Hamsik - non hanno garantito.
Higuain e compagni dipendono ancora da sé stessi, ed è per questo che non devono né guardare nello specchietto retrovisore la Roma che si avvicina, né tantomeno bearsi troppo nel riflesso del loro gioco. È arrivato il momento di fare fuori le paure interne, usare la rabbia trasformandola in energia positiva e pensare solo a sconfiggere Atalanta, Torino e Frosinone. A qualsiasi costo.