Grazie Cap17ano, grazie Marek Hamsik. Della tua eccezionale normalità

Se ne va il capitano dell'Era De Laurentiis, l'uomo che ha rappresentato la rinascita, la speranza, la maglia quando altri andavano via. Il ragazzo che abitava a Castelvolturno e quasi di nascosto ha battuto tutti i record. Ciao Marek, torna presto
  • di Boris Sollazzo

    Scrivo oggi perché ho fatto la formazione del fantacalcio. E per la prima volta non c'eri più. Tu, che per 12 anni sei stato il capitano di tutte le mie squadre, in tutte le mie fantaleghe, non c'eri più. E dopo giorni di sospensione, di speranza che tu ci ripensassi o Aurelio non accettasse le garanzie economiche dei "cinesi" (ADL non lo ammetterà mai, ma ha provato fino all'ultimo a tenerti con noi, sfruttando ogni cavillo), di post sui social che mi scartavetravano l'anima perché dall'amministratore del tuo condominio fino a Paolo Cannavaro passando per Starace tutti sentivano il bisogno di confermarmi la tua partenza, ora non ci sei più davvero. A Bratislava hai detto che tu non hai (ancora) pianto. Io sì. Perché eri il mio capitano Marek.

    Lo eri per ciò che sei. Un bravo ragazzo, un uomo che si è preso le sue responsabilità anche quando ti criticavamo, un napoletano vero come solo quelli che si innamorano della nostra città venendo da fuori sanno esserlo, da Donizetti a Diego, da Mertens a Arbore. Uno di noi, che è rimasto a vivere vicino al posto di lavoro, in un luogo che ha chiamato casa nonostante spesso sia usata dal cinema per raccontare degrado e dolore. In una città in cui molti han fatto i vampiri, lui ha dato tanto. Tutto. Troppo, forse, perché poi quando quel capitano tranquillo e tenace ha creduto in un sogno, in uno scudetto che il dio del calcio, anzi il dio dello sport doveva portare dove era giusto che fosse, ci hanno pensato ominicchi, il sistema e anche un carattere fragile a non permettere quel miracolo. Quello scudetto che lo so, Hamsik mio, ti ha spento il cuore. Ti ha detto che sì, c'erano 27 milioni di euro netti di buoni motivi per non crederci più, che tra campionati persi in albergo e potere arrogante, non c'era motivo per crederci ancora. Ci abbiamo pensato tutti, ed è forse per questo che nonostante questo Napoli di Ancelotti sia bello e emozionante, nonostante vi siate fatti ammirare a Parigi come contro il Liverpool, anche noi tifosi sembriamo più spenti.

    Non ce l'ho, non ce l'abbiamo con te perché te ne vai. Ci fa male, da morire, non vedere quel numero 17 che tu hai saputo farci amare. Non abbiamo più paura di lui, perché non vuol dire sfortuna ma Marekiaro, perché a noi così scaramantici hai fatto dimenticare una delle nostre superstizioni più grandi. Pensa, ragazzo, cosa sei stato per noi: hai cambiato il nostro immaginario, un nostro vizio, una paura atavica.

    E lo hai fatto con la tua eccezionale normalità, Marek. Non sei stato il più forte: Maradona, Careca, Sivori, Vinicio, Sallustro, per dire, ti davano le piste. Ma pure, forse, Juliano, o ancora Alemao, Zola, Pesaola, Cavani, Lavezzi, Mertens o Insigne (e dio mi perdoni per i tanti che ora dimentico, ovviamente). Vorrei dirne pure un altro, ma sai ora è in giro per l'Europa a pietire squadre che lo prendano in prestito.
    Non sei stato il più carismatico, perché per carattere, cazzimma e faccia tosta ne ricordiamo tanti. Non sei stato, ahinoi, neanche il più vincente. E, diciamocelo, non sei stato per nulla fortunato: meritavi più trofei, soddisfazioni, vittorie.
    Eppure. Eppure Marek sei nel nostro cuore come pochi altri. Perché fin da quando sei arrivato - anzi da prima, quando ci hai fatto impazzire in un Brescia-Napoli - hai reso facili le cose difficili. Così tanto che pur essendo tu un fuoriclasse, noi ti accusavamo di non essere un campionissimo. Noi non vedremo più quella coordinazione sghemba ma stilisticamente perfetta che ogni volta presagiva a un tuo lancio illuminante, né l'abnegazione tattica e tecnica con cui ti inserivi, triangolavi, tiravi (sempre meno) e infine cucivi gioco. Ce ne accorgeremo ora, perché tu rendevi tutto normale, così tanto da farti sottovalutare. Uno di quei giocatori alla Thiago Motta, tanto geniali da scomparire e farsi solo criticare, perché rendono tutto semplice, ovvio. Poi, però, nessuno riesce a replicare quei gesti, quelle idee, quelle illuminazioni.
    La normalità, lo sguardo puro, il sorriso sincero, l'impegno sempre al massimo e il rispetto. Non hai mai discusso, neanche quando Benitez avrebbe strappato i paccheri dalle mani a chiunque altro. Mai una discussione, una polemica, un gesto di stizza. Al massimo uno sguardo amareggiato. Ci hai insegnato che si poteva essere campioni, capitani, bandiere senza urlare, senza post social criptici e muscolari, senza liti, senza la gestione "mafiosa" di uno spogliatoio. No, mio caro Marek, non hai vinto molto: ma hai fatto la storia. Non solo per quei 123 gol e quelle 520 presenze con cui hai surclassato i miti del primo scudetto, Maradona e Bruscolotti, quasi scusandoti. Non per quei tre trofei che hai alzato. Ma perché se questo gruppo verrà ricordato come quello che ha subito la più grande ingiustizia della storia del calcio italiano moderno, se è un esempio di sportività e umanità, lo dobbiamo a te. I tuoi trofei sono quell'applauso in Napoli-Samp, con Dries commosso e impietrito e i compagni disorientati e partecipi, i post dei calciatori che hanno giocato con te: tutti, TUTTI, compresi tanti ex hanno raccontato in poche righe la tua grandezza. Tutti ti stanno rendendo onore, tutti non si vergognano a mostrarsi fragili senza quel ragazzo che in silenzio era leader, in campo e fuori. Tutti usano per te parole meravigliose. Perché a differenza dei tifosotti da divano, dei giornalistucoli, dei procuratori incompetenti, loro sanno che su di te si sono dette tante stupidaggini. Ne ricordiamo solo una: "sparisce nelle partite importanti". Chi conosce la storia non ha bisogno di ricordare la finale in cui vincemmo il primo trofeo della gestione De Laurentiis, Villareal, il gol contro il Besiktas, quella vittoria 2-3 contro la Juventus. E tante altre. Ma eri, sei troppo normale per prenderti i tuoi meriti: si vedeva da come hai sempre esultato, fratello mio. Non come altri colleghi, mostrandoti al mondo, inventando pagliacciate o gesti ricorrenti. No, tu come Diego, esultavi come noi al campetto. Braccia a mulinare vento, sorriso aperto, urla. Giusto quel vezzo della cresta, e poi mano sul cuore. Perché per te conta prima la maglia.

    Ci manchi, ci mancherai ma tu rimarrai sempre un giocatore del Napoli. Che la Cina ti sia lieve, che tu possa divertirti e soprattutto che tu possa tornare presto. Magari come dirigente. Ci manchi già, da morire.

    E allora, a te 17 del mio cuore, dedico un pensiero che va oltre ogni mia scaramanzia. Chi mi conosce sa che le possibili vittorie non vanno mai esplicitate a parole, è una mia regola insindacabile. Ma io lo faccio, per te, oggi. Ho un sogno nel cuore, Marek. Che si arrivi a Baku. Che succeda quello che vorremmo. E che tu sia sugli spalti. E a fine partita, tu scenda tra i tuoi amici, colleghi, sodali. Che qualcuno ti dia la 17, che tu ti tolga la camicia e la giacca, e la indossi. Che Lorenzo Insigne, a cui hai augurato di battere i tuoi record (quanti lo avrebbero fatto?), si avvicini con quella coppa e commosso te la dia. Perché tu possa alzarla. 

    Ciao Marek, a presto. A Baku, magari.



     

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