Io dico che neppure Pino vuole “Napul’è” come inno del Napoli
di Errico Novi
Ho appena rivisto il video di Napul’è cantata ieri sera al San Paolo. E mentre scrivo scendono ancora le lacrime. È una cosa che supera l’immaginazione: i napoletani che sentono l’amara elegia del loro poeta e la urlano come un inno di appartenenza. È una cosa stranissima. Questa canzone è di una bellezza struggente che però sgorga dal suo grido di verità: Napul’è tutte ’nu suonno, e ’a sape tutt’o munno, ma nun sanno ’a verità. È triste, è piena del dolore di un napoletano che ama la sua città ma ne indica il suo fatale destino. Pino quando l’ha scritta ha affidato il senso della sua “denuncia” a un provocatorio pessimismo: ha detto cioè che Napoli è una carta sporca, è un posto dove ognuno aspetta ’a ciorta per i fatti suoi, senza fare comunità, e non c’è niente da fare. I grandi descrivono le cose persino più brutte di quanto esse siano, nella speranza che questo susciti una voglia di cambiamento.
Ora io trovo incredibile l’amore che noi napoletani abbiamo per questa canzone. Non per la sua bellezza, così lancinante da non poter essere neppure discussa, ma perché ci chiama in causa, uno per uno, e in qualche modo ci mette con le spalle al muro. È come se dicesse: è colpa di tutti, di tutti noi. Forse di qualcuno un po’ più che degli altri, ma nessuno può chiamarsi fuori davvero. E allora com’è che nel sentirla noi napoletani non chiniamo il capo ma tendiamo le sciarpe e la urliamo come un inno nazionale? Dovremmo sentirci in colpa, invece facciamo di quell’amara condanna un’affermazione identitaria.
La cosa suona ancora più “sconcertante” se associata a una partita di calcio. Un’occasione in cui l’orgoglio dovrebbe prevalere sui sensi di colpa. Il desiderio di affermazione sulla pena per le cose che non cambiano. Come ha scritto qualche giorno fa su Extranapoli Gianmario Mariniello, questa canzone non è adatta ad essere l’inno del Napoli. A meno che non si voglia produrre un effetto del tutto paradossale: pretendere di incitare la squadra alla battaglia ricordando il dramma della città che rappresenta.
Mentre mi commuovo e sento la voce di Pino che risuona dagli altoparlanti, e vedo il marito di Valentina, l’amica che ci ha inviato il video, piangere esattamente come faccio io mentre lo guardo, vedo a un certo punto i giocatori in mezzo al campo che sgambettano per riscaldarsi, che affilano le armi in vista del calcio d’inizio. E lì la contraddizione diventa totale, assoluta. E anzi, capisco in modo definitivo che il primo a non volere Napul’è come inno del Napoli è proprio Pino. Perché da lassù, da dove avrà senz’altro assistito anche lui all’ennesimo furto bianconero, avrà pensato: “No uagliù, se voi decidete che questo è l’inno, me facite scennere ’o core ’ind’e cazette”. Perché? Semplice: perché se noi scegliamo Napul’è come inno vuol dire che ci vogliamo tenere per sempre l’epiteto di carta sporca. Vuol dire che vogliamo fermarci a questo, e non cambiare mai. Accontentarci della nostra condizione, e farne un destino irreversibile. Quasi compiacerci di essere la città bella e dannata per eccellenza. Sbandierare la cosa come se fosse il massimo a cui possiamo aspirare. E no. Non ditemi che Pino vuole questo. Non ditemi che è contento se vede che ci rassegniamo. Da lassù, da quella “tribuna che i grandi tifosi del Napoli andati in Paradiso avranno senz’altro costruito”, come dice Maurizio de Giovanni, Pino si aspetta che prima o poi Napoli cambi. E che intanto tutti noi speriamo nel cambiamento, anche se non siamo ancora capaci di realizzarlo. E perciò non ci vuole vedere gonfiare il petto e stendere le sciarpe mentre cantiamo la sua canzone. Ci vuole abbracciati l’uno all’altro, urlarla e piangere, magari a un concerto o semplicemente a casa attorno a un amico che sa suonare la chitarra, e sperare tutti insieme che un giorno Napul’è sentiremo di essercela lasciata alle spalle.