Napoli-Genoa, il gemellaggio
di Simone Pieranni (@simopieranni)*
Il 16 maggio del 1982 era una domenica ed io ero in campagna con mio zio. A un'ora e mezza circa da Genova, una zona di valli, contadini, campagnoli e vitigni. Da quelle parti si fa il Gavi. Mio zio aveva una vigna, con tanto di piccolo orto e qualche gallina. Lì mio zio aveva una specie di box, dove io giocavo, o se non sapevo che fare, toccavo un po' tutto, c'erano coltelli, pale, badili, cesoie, sementi. Tranne quando c'era da fare la vendemmia, che detto tra noi, ti fai un culo grosso come una casa. In ogni caso, alla domenica andavamo lì ad ascoltare le partite alla radio.
Lui era un vecchio cuore Toro, io ero ancora troppo piccolo per capire molte cose, ma sapevo con certezza che quella domenica era fondamentale. Avevo capito da poco – ad esempio – che dopo un gol se il calciatore fiondava la palla di nuovo in rete (mi pareva lo facesse sempre Bettega) valeva lo stesso uno. Andavo già allo stadio, mi ci portava mio nonno. Abbonati a quello spicchio di curva del vecchio Ferraris, tra la Gradinata Nord della Fossa e la tribuna. Mio nonno diceva che in curva c'era pieno di legere (piccolo delinquente in genovese) e che per me era troppo pericoloso. Io mi piazzavo sotto lo striscione Bailando o ritmo do samba e mi ricordo che mi sono perso molti gol – specie degli avversari - perché ero intento a guardare la Nord, anziché il campo. C'erano sempre bandiere a sventolare, ogni momento.
Allora non c'erano i cellulari, ma non solo: in un posto di campagna come quello non c'era neanche il telefono in casa. Allora il giorno prima con i miei zii ci spingemmo fino in piazza (!!) nell'unico bar per chiamare a casa a Genova. Mi feci passare mio nonno, che era una specie di mago per me, mi pareva azzeccasse tutti i pronostici. “Se non pareggiamo andiamo in B”, mi disse. A me quella lettera B mi spaventò moltissimo. Ricordo ancora che il sabato prima della gara, dormii male. Non so se era la B a dilaniarmi o i racconti di mia zia che erano sempre su giovani e belli, ma morti annegati nei mulinelli dei fiumi. Per quello odio i fiumi. E odio la B. Il 16 maggio 1982 ultima di campionato, c'era Napoli-Genoa. Noi dovevamo almeno pareggiare, era stato detto, dall'altra parte a contendersi la permanenza in A con noi, c'era sta squadra velenosa, brutta, reffiosa (diciamo antipatica in genovese): il Milan. Ce la giocavamo con loro la salvezza, la permanenza in A. La B è una merda! Figurine dei calciatori piccoli, gol a orari improbabili, impossibile da vedere, impossibile capire con che maglia si gioca, chi gioca soprattutto. Con il Milan avevamo perso qualche settimana prima 1-2. Maldera e Baresi ci avevano buttato quasi all'Inferno. A qualche minuto dalla fine a Napoli, siamo in B. Perdiamo 2-1 dopo essere stati in vantaggio. Alla radio non si sente, ma non pochi racconteranno poi che i napoletani facevano il tifo per noi.
Entra Mario Faccenda. Io sto zitto, mio zio, cuore granata ma simpatizzante Grifone, sbuffa e dice, «è finita». E invece: Mario Faccenda la mette: 2-2, Genoa in A, Milan in B. E' l'origine del gemellaggio con il Napoli. Non ho mai trovato le immagini, ma mi pare di ricordare che il calcio d'angolo da cui scaturì il gol di Faccenda sia stato un regalo clamoroso di Castellini, da allora mio portiere preferito nei secoli dei secoli. Io non sapevo niente del gemellaggio, l'ho scoperto solo anni dopo, ma da quel giorno cominciai a chiedere sempre i risultati del Napoli. E controllavo i tabellini per rassicurarmi: Castellini, c'era. Il Napoli mi ha sollevato durante uno dei momenti calcistici più bui della mia vita, mi ha portato allo stadio anche quando giocavano contro quegli altri, nella gabbia, partite squallide a Napoli di B, di bassa B, poi la risalita. Ma soprattutto, da quel giorno, quasi mi sarei buttato nel fiume fottendomene perfino dei mulinelli.
*Genoa's reporter in Beijing [Director at China-Files] - Il Manifesto