Luigi De Canio, l'ultimo degli eroi A.D. (Ante De Laurentiis)
di Boris Sollazzo
Era il 24 dicembre del 2001. Un Natale triste. A luglio era morto Carlo Giuliani, a settembre eran venute giù le torri a New York. E anche il Napoli non si sentiva tanto bene: era tornato in B, aveva una rosa improbabile, ancora Corbelli (purtroppo) e aveva vissuto un inizio di campionato decisamente difficile, ben fotografato dall'illusoria doppietta di Stellone al Ferraris contro il Genoa nella prima di campionato, seguita da tre sconfitte consecutive. Si vinceva soffrendo, spesso si pareggiava in casa - ancora non dormo per un Napoli-Crotone deprimente o un Napoli-Cittadella soporifero - e sulla panchina c'era un signore del calcio. Un uomo elegante, intelligente, tatticamente raffinato e ottimo conoscitore di calciatori e di calcio. Aveva una rosa demenziale, come dicevamo, fatta di scarti, prestiti, buchi neri e acquisti al limite del ridicolo (arrivò Esteban Lopez, tanto per dire, e a gennaio Pavòn). Gli chiedevano la serie A e lui bruciò il baffuto elefantino Corbelli con un "non si fanno le nozze con i fichi secchi". Ce lo disse anche a noi ragazzi di Spazio Napoli, la prima trasmissione sugli azzurri che ho condotto in una radio romana, Nuova Spazio Radio. Ora sono su Radio Manà Sport, ogni martedì dalle 20.30 alle 21.30, con Manà MaNapoli. Lui, innamorato di Napoli più di quanto volesse ammettere nella sua riservatezza, rispose al telefono alle 19.30 della vigilia, prima di mettersi a tavola con i parenti. Per venti minuti di chiacchiere tattiche, di promesse di impegno, di voglia di vincere sul Golfo. Non lo dimenticherò mai.
Eppure lui, il maestro di Antonio Conte (pochi ricordano che il parrucchino più famoso d'Italia imparò i rudimenti della panchina facendogli da secondo a Siena), quasi ci riuscì. Puntando su giocatori tecnici che potevano avere un passato migliore e che con lui ebbero un bel presente: Mancini tra papere e miracoli, Stellone che segnava e toglieva le castagne dal fuoco, il sottovalutato e fragile Vidigal, Luppi, il libero con il vizio del gol (da fermo), Jankulovski (il nostro primo Marek), Magoni (un centrocampista da Oscar), il mitico Montezine e le sue parabole e serpentine, il muro della difesa Bonomi, persino il grintoso Rastelli e l'eterna promessa non mantenuta Graffiedi. Per dire, Gigi De Canio riuscì pure nel miracolo di vincere una partita grazie a un gol di Davide Sesa, che già allora era tra i protagonisti dei servizi di Chi l'ha visto (Napoli-Modena 1-0).
E quel Napoli, sfortunatissimo a volte, giocava anche bene, con un eclettismo figlio di necessità e intelligenza, cambiò modulo spesso, tra 4-4-2 e 4-3-3 soprattutto. Spesso si subivano gol evitabili, molte volte quella Armata Brancaleone dimostrava cuore e acume tattico, ma una povertà tecnica drammatica. Eppure a più di un mese dalla fine della stagione Gigi e i suoi ragazzi, che si erano fatti amare in quella serie B sofferta, erano lì. A giocarsi il quarto posto e la promozione. Ricordo ancora che con la trasmissione organizzammo una trasferta. Niente pullman, occupammo di fatto mezzo scompartimento di un treno, più di venti romanapoletani a sognare. Era Napoli-Reggina, li avremmo superati con una vittoria. Segnò subito Savoldi figlio, una nemesi insopportabile, per tanti motivi (per tutto quello che il padre aveva fatto al San Paolo, per tutto quello che lui non avrebbe fatto). Soffrimmo, attaccammo, infine pareggiamo. Con José Vidigal, all'86'. Ricordo le braccia di solito composte di Gigi tentare di spingere i suoi, roteando nell'aria, con quello sguardo che ti fa pensare sempre a un sorriso un po' triste farsi di fuoco. Ci provammo, una punizione scheggiò un palo, ma nulla. Mancavano cinque partite, ma noi lasciammo le speranze lì. Vincendole tutte o quasi saremmo stati promossi lo stesso, ma quella squadra aveva dato ben più di quello che aveva. E quella domenica pomeriggio si spense. Tutti chiedemmo a Gigi di rimanere: alla radio facemmo una petizione, lo chiamavamo ogni settimana, niente da fare. Quella Reggina che lui tanto aveva fatto soffrire al San Paolo lo chiamerà l'anno dopo a stagione iniziata. Quel materano dagli occhi chiari e profondi non poteva resistere con Corbelli, così come non lo fece dopo uno straordinario ciclo a Lecce. Lo volevano allenatore-manager, gli fecero un quadriennale. Lui dopo aver ottenuto una promozione e poi una salvezza, si dimise. Rinunciando a soldi e sicurezza.
Perché più del suo talento nel sapere capire tutte le città, gli stadi e giocatori, anche scarsi, di lui colpisce quel carattere di chi si spezza, ma non si piega. Non ha mai fatto la vittima De Canio, pur non avendo avuto dalla sua carriera quello che meriterebbe. Non ha mai alzato la voce. Non ha mai cercato amicizie facili e potenti. Ha sempre fatto il suo lavoro, tanto da non lasciare da nessuna parte un brutto ricordo (io, quest'anno, lo volevo per il dopo Mazzarri!).
Ecco perché stasera Luigi va applaudito, come sempre. Ci ha fatto sognare quando già eravamo nel pieno dell'incubo. I suoi 61 punti sono stati l'ultimo momento di dignità del Napoli A.D. (ante De Laurentiis). E di questo non potremo mai ringraziarlo abbastanza. Come al solito non è fortunato e gli è capitato in sorte un Catania in calo e con infortuni importanti. Ma noi tiferemo per te, eroe tranquillo e normale. A partire dalla prossima settimana. Oggi, Gigi, niente scherzi.