Quel trionfo 24 anni fa, quando Napoli non era figlia di nessuno
di Errico Novi
E insomma, tra le altre cose 24 anni fa battemmo Berlusconi. Era il 29 maggio del 1990, strano giorno per l’ultima di campionato. Ci arrivammo dopo due episodi chiave: la vittoria a tavolino sull’Atalanta sancita dal giudice sportivo l’11 aprile e il trionfale 4-2 di Bologna, con il contemporaneo tracollo rossonero a Verona. Al San Paolo si consumò l’atto finale, l’1-0 alla Lazio con la testata vincente di Marco Baroni. Secondo scudetto, un’ebbrezza indescrivibile. Pochi anni prima sarebbe stato da pazzi solo sperarlo.
Fu un’apoteosi accompagnata da polemiche arroventate, curioso antipasto di quelle che avrebbero visto protagonista il Cavaliere dopo la sua discesa in campo. Craxi parlò di «vergogna calcistica», a proposito della sentenza definitiva pronunciata dalla Caf sulla monetina di Alemao. Oggi ci sembra irrealistico non tanto il fatto di poter rivincere lo scudetto. Anzi a sentire certi tifosi, e certi opinionisti, Benitez dovrebbe andarsi a nascondere per non esserci riuscito già quest’anno. Sembra lontano invece il peso politico che il Napoli dimostrò di avere 24 anni fa. A dimostrarlo, più che le pronunce sulla vittoria a tavolino contro l’Atalanta, assolutamente dovute secondo regolamento, fu la fermezza con cui il sistema calcistico rispose all’offensiva del Milan. Cruciale l’arbitraggio di Rosario Lo Bello al Bentegodi, con l’espulsione di Sacchi e poi di Rijkaard, Costacurta e Van Basten. Non solo le lamentele dei rossoneri furono respinte, ma proprio i toni esasperati con cui quelle recriminazioni arrivarono fin dentro il rettangolo verde vennero rispediti al mittente con quattro cartellini rossi di accompagnamento.
Quello è un passaggio che spiega anche quanto sia cambiata la condizione della città. Dà il senso della centralità della Napoli di allora nella geografia del potere. La giustizia sportiva tiene, gli arbitri censurano i rossoneri anziché consolarli, Berlusconi protesta senza che si metta in moto alcun meccanismo compensativo. Accadrebbe ancora, oggi? Si direbbe di no. Oggi basta che il Napoli batta la Juve in una partita quasi inutile e parte la controffensiva mediatica dei poteri forti del pallone, innanzitutto quelli televisivi. Se c’è da discutere il rinnovo del contratto con la Infront, l’agenzia che vende i diritti tv della Lega di serie A, a De Laurentiis non viene neanche dato il tempo di leggere le clausole: Beretta lascia che Agnelli e Lotito sbrighino la pratica come se fosse un loro affare privato e al nostro Aurelio non resta che sbattere la porta. Con tanto di «io vi denuncio tutti» urlato agli altri consiglieri. Ma più di tutto colpisce l’assoluta solitudine politica in cui oggi il presidente del Napoli agisce. Nel 1990 c’era un governo con cinque ministri napoletani (Gava all’Interno, Pomicino al Bilancio, De Lorenzo alla Sanità, Ruggiero al Commercio estero e Iervolino agli Affari sociali). Nell’esecutivo di oggi non c’è manco l’ombra di un campano. Napoli è sempre più fuori dall’orbita delle decisioni, sempre più prigioniera di leader locali che fanno del proprio isolamento quasi un marchio di fabbrica (tra De Magistris e Cosentino c’è poca differenza, da questo punto di vista). De Laurentiis è una specie di cavaliere solitario, che sbotta con tale frequenza da dare l’impressione di non avere molte altre armi per farsi ascoltare.
Se Napoli vincerà di nuovo nel calcio lo farà senza godere di alcun peso politico generale. Dovrà fare affidamento sulle proprie esclusive forze. L’impresa si complica, in un sistema in cui ormai la Juve, tanto per dire, è avamposto di un sistema di potere persino estraneo al Paese. Anche per questo dovremmo imparare a custodire con gelosia quel tesoro che Benitez rappresenta. Perché l’abitudine alla vittoria, quando non hai attorno l’occhio benevolo dei potenti, è il solo scudo che può farti arrivare indenne al traguardo.