Cronaca di una cavalcata immortale
Di Antonio Moschella
Ci sono situazioni che non si ripeteranno mai più. Nel calcio come nella vita. Si tratta di scenari storico-culturali a sé stanti, che si appigliano a uomini straordinari figli di epoche difficili e tristi. Il 22 giugno 1986 allo stadio Azteca di Città del Messico era in programma un incontro di calcio diverso dagli altri. Argentina e Inghilterra si incontravano in un campo verde 4 anni dopo un sanguinario scontro bellico in cui migliaia di ventenni argentini persero la vita per le scelte scellerate di una dittatura e per le forti rappresaglie del governo autoritario di Margaret Tatcher criticato finanche dai Pink Floyd.
Quel giorno il sole batteva alto e forte e il sudore avrebbe potuto fare la differenza. L’Argentina, che per ragioni fortuite non disponeva di un’altra serie di maglie blu, fu salvata da un’equipe di sarte messicane che cucirono su delle magliette comprate il giorno prima del match in un negozio di Città del Messico. Il tecnico Carlos Bilardo era scettico sulla traspirabilità delle magliette acquistate dal magazziniere Ruben Moschella, ma Diego arrivò e disse “Mi piace questo modello, con essa batteremo gli inglesi”. Parola di D10S. Al resto ci pensarono le sarte che cucirono il logo della AFA e stirarono alla meglio dei numeri di football americano, senza pensare che quegli indumenti sarebbero passati alla storia.
A oltre 2mila metri di altezza e undici contro undici, le forze a disposizioni non erano così impari come nel 1982, quando il vero comandante argentino svernava in Spagna e covava lentamente la vendetta contro l’invasore britannico, attirato dal petrolio delle isole Flalklands / Malvinas. Il 22 giugno 1986 veniva caricato dall’enfasi di una rabbia atavica: il prescelto rappresentante del popolo doveva restituire l’umiliazione della guerra senza combattere, ma a modo suo, con le arti magiche del suo piede sinistro. E non solo del piede.
Poche ore dopo il comandante argentino, con il pugno chiuso rivolto al cielo, avrebbe cambiato per sempre la storia del calcio dando una rivincita a un popolo che da poco riscopriva la libertà della democrazia e aveva bisogno di sentirsi vivo e importante. Diego Armando Maradona iniziò col rubare al ladro - cosa che non è peccato - col suo pugno sinistro. Poi decise che la storia doveva essere decorata con un’opera d’arte e pochi minuti dopo diede il via a un dolce tango di undici secondi che ebbe la sua lieta climax nel rumore della folla estasiata dopo che il pallone avesse toccato la rete.
Il 22 giugno 1986 la storia subiva un terremoto che avrebbe spostato il suo asse all’infinito. Nel giro di pochi minuti la stessa persona, un umano con capacità divine, decideva praticamente da solo il destino di una partita, di un mondiale e di un popolo. Le condizioni pregresse erano uniche e lui fu capace di superare le aspettative. La Mano de D10S e il gol più artistico e poetico della storia del calcio tracciavano un solco. Il tutto con una maglietta che pochi giorni prima prendeva polvere in un negozio sportivo di mezza tacca della capitale messicana.
Perché quando la storia arriva e il prescelto la scruta, allora bisogna solo acquietarsi ed assistire allo scorrimento degli eventi. Per noi napoletani la sublimazione di tutto ciò avrebbe avuto luogo 10 mesi e mezzo dopo, il 10 maggio 1987. Ma quel giorno si accese la scintilla della speranza. Le lacrime di Victor Hugo Morales, il cronista di quello storico evento, furono il preludio delle nostre. Per fortuna.