Io sono De Laurentiis. E sono preoccupato per il prossimo futuro. Il Napoli tra il “dilemma-Benitez” e l’assenza di leader.
di Dario Bevilacqua
Io sono De Laurentiis.
Il De Laurentiis che si torce in tribuna, vedendo che i suoi hanno mollato, e il De Laurentis che spintona il tifoso, in preda alla rabbia di un post-partita deprimente e pieno di cattivi segnali.
Il De Laurentiis preoccupato, che sa che anche questa estate dovrà lottare, sudare e ingegnarsi in ogni modo possibile per dare una svolta al percorso di crescita del suo Napoli.
Io sono De Laurentiis perché sono il tifoso frustrato, amareggiato, deluso e preoccupato. Lo sono per l’ennesima sconfitta in provincia, contro una squadra (il Parma), che, nonostante un buon campionato, è pur sempre franata di fronte a Juve e Roma, mentre ha catturato sei punti sei al Napoli nelle due sfide di campionato. Lo sono perché il secondo posto è sfumato e perché i preliminari di Champions sono sempre un handicap.
Sono amareggiato e deluso non tanto perché la stagione sia stata brutta: usciti a testa alta da Champions ed Europa League, in finale di Coppa Italia e con un terzo posto ancora da blindare ma abbastanza solido. E, non dimentichiamolo, con tante soddisfazioni, come le vittorie su Borussia, Arsenal, Marsiglia, Roma, Milan, Inter, Fiorentina e Juventus.
Ma sono amareggiato e deluso, ma anche preoccupato perché, anche quest’anno, il Napoli non ha fatto il salto di qualità.
Le scusanti ci sono tutte e le conosciamo. Le ripetiamo brevemente: tecnico al primo anno; molti giocatori nuovi, troppi di questi appartenenti al progetto precedente, per giunta in ruoli chiave; molti infortuni; troppi impegni rispetto alle concorrenti, anzi a una in particolare.
Eppure, anche la Juve ha avuto le coppe, anche la Roma si è affidata a un nuovo tecnico, straniero come Benitez e ha cambiato molti interpreti in campo. Gli infortuni hanno colpito anche Roma e Fiorentina. E chissà se con Gomez e Rossi la viola sarebbe stata così distante.
Detto ciò, rimane il solito dilemma: quanto è grande questo Napoli? E, se non lo è, come può diventarlo?
Se, come la Roma di quest’anno, giocassimo una stagione senza le coppe, faremmo sicuramente un gran campionato. Ma quanti campioni verrebbero a giocare da noi? E basterebbe per vincere?
Inoltre le coppe bisogna farle: per il prestigio, per la gloria, per ambizione personale, per crescere come squadra. E per incassare quattrini. E allora deve essere il Napoli a crescere, facendo il salto di qualità. Per far questo servono molte cose. Tra le altre, uno stadio di proprietà, un leader vero in mezzo al campo, una rosa completa e ben assortita, un allenatore con le idee chiare e la giusta dose di tattica e carisma.
Dando per scontato che il mercato di questa estate sarà fondamentale per rafforzare la rosa, cui mancano due centrali di centrocampo, un laterale e un centrale di difesa, e un vice-Higuain, mi concentrerei su due aspetti: il primo fa riferimento all’assenza di un leader in campo e negli spogliatoi, il secondo ha nome e cognome e si chiama Rafa Benitez.
La mancanza di un leader è uno dei grandi difetti di questo Napoli, anche se non sono molti ad aver notato tale aspetto. Facciamo un confronto con le altre squadre. La Juve ha almeno cinque giocatori carismatici, trascinatori, combattenti (Buffon, Chiellini, Vidal, Pirlo, Tevez): gente che non molla mai, che incoraggia e motiva i più giovani, che quando la squadra va sotto si danna l’anima per recuperare, ma senza perdere la testa. Veri campioni, insomma, non soltanto giocatori di qualità. Veniamo alla Roma: ci sono Totti, Strootman, De Rossi, ma anche Pjanic, Benatia e lo stesso De Sanctis non sono da meno.
E il Napoli? Forse, più di ogni altro, Reina. Ma è lontano dal gioco e poi è nuovo nel campionato italiano: alcune dinamiche gli sono oscure. E anche lui, come Higuain, Albiol e Benitez è convinto che giocare in casa contro il Sassuolo o il Livorno sia come affrontare, in Spagna, Osasuna e Levante. Altri trascinatori non ne vedo. Forse Hamsik, ma quest’anno si è perso e non ha ancora raggiunto quella maturità caratteriale. Di sicuro non Higuain, troppo “naif” e “borghese” per assumersi il ruolo di capitano di fatto che guida i suoi all’impresa. In questo, nel cambio con Cavani, abbiamo sicuramente perso. I giocatori sono buoni e con tante qualità, ma carisma, carattere, capacità di soffrire e di reagire sono ancora in difetto tra le fila degli azzurri. E si vede. Si vede quando “molli” a sei giornate dalla fine; quando pareggi 2 a 2 a Bologna, in 11 contro 10; quando, subendo un gol dal Chievo, al San Paolo, riesci a racimolare solo un pareggio; quando pareggi 3 a 3 contro l’Udinese in casa e persino quando, in vantaggio di 4 gol contro un Catania allo sbando gli permetti di fare 2 gol. Le eccezioni ci sono, ma non bastano. E le grandi imprese contro squadre blasonate non contano: lì la motivazione è implicita e data per scontata.
Ma veniamo al secondo dilemma: Rafa Benitez. Intendiamoci, il mercato degli allenatori, oggi, non offre granché. Intendiamoci su un’altra cosa, Benitez ha sicuramente grandi qualità ed è un fine conoscitore di calcio, portato sempre a migliorare. Per questo mi piacerebbe che ricevesse queste critiche. Alcuni suoi limiti, infatti, sono evidenti. E riguardano: modulo e approccio tattico, motivazioni, lettura della partita. Ribadendo che il buon Rafa non sembra in grado di trasmettere rabbia e grinta (per questo servirebbe qualcuno che lo faccia, tra i giocatori), le perplessità riguardano proprio la tattica e la lettura delle partite.
Sul questi temi ci ripetiamo: si può vincere in Italia con un modulo così spregiudicato? Forse con dei grandi campioni. Ma se penso che il famoso Milan di Sacchi in realtà difendeva molto, e bene, affidandosi molto a ripartenze e verticalizzazioni, mi rendo contro che davvero non esistono precedenti vittoriosi in Italia. Spalletti non vinse nulla, Zeman non ne parliamo. Mentre invece, senza scomodare Trapattoni e Capello, ricordo il centrocampo foltissimo della Lazio di Eriksson, l’albero di Natale solido ed equilibrato di Ancelotti, i tre mediani di Allegri, per citare anche squadre recenti. Il 4-2-3-1 è bello, ma è dispendioso, specialmente in Italia. Solo un tecnico ha vinto con questo modulo. Lui si chiamava Josè Mourinho. E gli interpreti di quel modulo – non usato in tutte le partite – erano, tra gli altri, Maicon, Samuel, Lucio, Zanetti, Cambiasso, Snejder, Eto’o. Tutti giocatori, peraltro, che l’anno dopo erano svuotati e spremuti.
Un altro difetto del modulo di Benitez è che non si può cambiare in corsa, in senso offensivo. Quando Mazzarri era in difficoltà, toglieva un centrocampista o un difensore e passava a 4 in difesa. In questo modo rivoluzionava la squadra e spiazzava l’avversario, soprattutto quelli chiusi, privi dei punti di riferimento precedenti. Ma col 4-2-3-1, se vai sotto, come puoi cambiare? Al massimo metti un’altra punta accanto al centravanti, ma per farlo devi comunque togliere uno dei tre giocatori offensivi che si muovono dietro l’attaccante centrale. Quindi sei prevedibile. Un Di Carlo qualsiasi, o un Di Francesco, ti chiudono tutti gli spazi e addio. Con buona pace di Javi Garcia, tecnico dell’Osasuna.
Infine, i cambi: Benitez li fa troppo in ritardo, anche quando la squadra non gira, anche quando ci sono giocatori non in vena, anche quando si rimane in dieci. La logica di questo approccio rimane un mistero e anche se ci sarà una motivazione razionale, sembra davvero un approccio dilettantesco. O, peggio, pauroso.
Per tutte queste ragioni sono preoccupato. O meglio: sono pessimista. Per carità, non bisogna pretendere troppo e il Napoli ci sta già regalando tante soddisfazioni. Ma i sogni, beh, quelli rischiano di rimanere tali.