Hamsik, forse quella fascia pesa troppo. Ma fischiarti è infame
di Enrico Ariemma
Peppe Azzurro, il mio sodale inseparabile di Malattia, l’uomo meraviglioso che ha pianto con me a Firenze, il tifoso passionale che rivendica con sacrosante invettive il diritto alla rabbia schiumata e sbavante, saprà perdonarmi: “Capitano, mio capitano” proprio non riesce a farmi pensare ad Hamsik. Non riesco a istituire alcun confronto tra Marek e Abraham Lincoln, se non in quanto “does not answer, his lips are pale and still”. Perché, Hamsik forse mai - se non ora, quando? - avrà le spalle forti per caricarsene l’onere e l’onore della leadership indiscussa, sempre, invece, posta in questione vuoi dalle schizofreniche curve di rendimento, vuoi dalla inconscia, genetica, ontologica riottosità a dotarsi di un aplomb di da trascinatore in campo e fuori.
Ora, io su Hamsik ho un’idea tecnica, una visione da osservatore dilettante e impreciso, una delle molte, non definitiva, semplicemente induttiva e modificabile (anche se, purtroppo, statica e stabile da un po’).
Uno dei più raffinati “totali” d’Europa, che, per alcuni anni, ha dato il meglio in un ambiente particolarmente congeniale all’espressione dei pezzi migliori del repertorio (attacco dello spazio perché di spazio ne restava tanto, gioco tra le linee, gol di inserimento o a rimorchio, margini per il tiro da fuori, discese coast to coast). Pur non concepita a sua immagine, da Reja a Mazzarri la squadra sembrava profilata su di lui, sui versanti tecnico e tattico: leggi 3-5-2, leggi Lavezzi-Cavani, e più il secondo che il primo. Il salto di qualità, la prova di maturità, la discriminante che marca l’apice di carriera, lo hanno sorpreso assente all’appuntamento, o, se anche alla serata di gala ci è arrivato nella carrozza da guest star, ha stonato quel papillon fuori posto, è stato dissonante il gilet col bottoncino ballerino. da fuoriclasse annunciato e forse pure reale, era anche suo onere trovarsi una collocazione magari snaturando o modificando proprie caratteristiche rilevanti; il verdetto è ad oggi impietoso: impari al compito. anche se Rafa gli chiede (a mio parere, e non soltanto mio, essendo la questione oggetto di dialogo pluriennale con amici illuminati e osservatori scafatissimi) attività posizione movimenti che lui non può fare: giocare nello stretto in fase di densità e di possesso palla prolungato, prevalentemente, ma fisico e passo per questo Marek non li possiede, figuriamoci se nessuno davanti gli apre spazi (ecco perché entra DeGuzman e ti apre le partite come una mela, lui è un leggero e nel suo dna, pur senza avere il profilo complessivo di Marek, ha la danza di chi si colloca agilmente anche nel traffico intasato).
Allo stato dunque, ma lo vado scrivendo da un anno su testate, testatine e testatelle varie, nel 4-2-3-1, o almeno in “questo” 4-2-3-1, non può essere utilizzato e non può essere utile. Poi c’è anche, chi lo nega, un problema di condizione, di fiducia o entrambe le cose, perché, alla fin fine, DeGuzman fa con Cagliari e Empoli, ma anche Young Boys e forse pure Genoa, i gol che Hamsik ha fatto per anni, con movimenti e conclusioni similari.
Ciò doverosamente premesso, domenica si è oltrepassata l’ultima frontiera. Come se il pubblico (chiamiamolo pubblico, con qualche sforzo e non poche concessioni) spostasse sempre in un al di là imprecisato l’asticella dell’indecenza e dell’ignominia. Nella città a cui piace il rumore, il canto e lo sparo, i fischi al Capitano, l’uomo che dovrebbe caricarsi sulle spalle, ad onta di qualche defaillance caratteriale palmare e conclamata, onori e oneri della leadership indiscussa. All’unico tra i top players veri o presunti che ha avuto il coraggio di dichiarare quanto segue: «Se un giorno dovessi andare via da Napoli sarà perché mi stanno cacciando. Io rimango qui, questa è la mia casa».
Parto da un elemento romantico-retorico, si lamenta spesso, con malcelato catonismo, come emblema del nuovo calcio patinato e satellitare, l’assenza di bandiere, nel calcio italiano attuale, al netto dei Totti e dei DelPiero; lo si dice così spesso, vagheggiando il buon tempo antico dei Bergomi, dei Maldini, dei Mazzola, dei Rivera, dei Juliano. Il vento dell’Est ne ha depositata una al quarantunesimo parallelo. Obliterarne in un batter di ciglia l’apporto tecnico e umano è veramente un cocktail perverso di superficialità, incompetenza, irriconoscenza, stavo per dire infamia.
Intendiamoci, nei singoli contesti di gioco gliene urlo a profusione, a Marek, nessuno ha il prosciutto sugli occhi e la qualità delle prestazioni è impietosa; ed è comprensibile, anche se non condivisibile, che chi lo vede giocare (specie chi “guarda le figure” senza avere gli strumenti per analisi tecniche e tattiche meno di superficie) esperisca un sentimento che si aggira nei dintorni della selvaggia esasperazione. Ma il fischio, quello a bocce (momentaneamente) ferme, quello che colpisce alle spalle come una pugnalata in casa sua (e in casa mia), quello no, quello va all’uomo, e io all’uomo non posso rimproverare indolenza, disaffezione, mancanza di sudore. Per questo, senza lesinare termini forti e un po’ “a marchio”, e dato che non credo ai fischi per amore, un inutile e retoricissimo ossimoro che disegna una attitudine ipocrita e fasulla, parlerei di infamia: mi si rinfaccerà un rigurgito di dogmatismo ma non riesco ad assestare il mio orizzonte ideologico su posizioni più morbide.
E qui entra in gioco la composizione del pubblico (come già sottolineato da Tania Sollazzo e Dario Bevilacqua - ndr), dell’ex pubblico migliore d’Italia. Da chi viene il fischio? da chi (ieri ho quasi sfiorato lo scontro fisico per questo) va al SanPaolo come si andava all’Edenlandia, dieci euro e pranzo al sacco. Gente che diceva, e io strabuzzavo gli occhi: “questo è uno spettacolo, e se non mi piace fischio, perché ho pagato”. In sostanza, quelli che alla fine del primo tempo di una partita sideralmente delicata, che condizionerà le prossime due o tre stagioni (Bilbao, metà agosto), che hanno fatto? fischiano e fanno pure di peggio con Insigne (che almeno risponde per le rime). Rientrando dal Tempio, domenica, ho visto il Fidelio alla prima della Scala: mi è piaciuta moltissimo la direzione e molto poco l’allestimento, avrei forse fischiato o non applaudito se fossi stato lì. Ma in quel caso il mio coinvolgimento è meramente estetico, il mio disappunto esclusivamente contestuale, è assente la fibrillazione emotiva, latita il cuore che batte, non mi blandisce la maglia sulla pelle, non vivo il Fidelio come una questione di vita o di morte, come un chiodo fisso dal lunedì alla domenica che ti insegue come un’amore proibito e ti tormenta come un problema insolubile. Questo capita con il tifo, solo con il tifo, con la malattia, con quello stato permanente. Vogliamo, tutti, vincere. Mi si dica come si sostiene, mi si dica quale ambiente si crea attorno a chi tu vuoi che vinca se lo sommergi di fischi, se gli fai sentire il tuo malumore.
Ma questo è anche il risultato di un indottrinamento pensato perseguito realizzato da certa stampaglia cittadina che reclamava prima, e reclama adesso, l’esonero di Rafa a botta di pseudo-sondaggi. Che diffonde, mettendosi sotto i tacchi i fondamenti deontologici (la verifica), rumors fragili e insidiosi su contestazioni presunte ai danni di chi (moglie, ad esempio) semplicemente era altrove. Forse, diciamolo, in altri lidi sono meglio di noi: almeno attorno alla squadra, a Roma, ad esempio, fanno quadrato tutte le componenti. E sono migliori anche le tifoserie, quelle che esprimono amore e malumore nei 90’, che magari vanno a prendere Osvaldo per il bavero (e non si fa, mai), ma che quando si gioca, quando è il risultato a contare, esibiscono sciarpate “integrali”, gridano all’unisono e a squarciagola, bambini di sei anni a lasciarsi esplodere i polmoni e vegliardi ottuagenari a brutalizzare i frustuli coronarici residui.
Certo, mI si dirà che il fischio fa parte del gioco, che il lavoratore se non rende va a casa, che qua parliamo di ragazzi allevati a bistecche di bisonte e flebo di banconote pesanti eccetera eccetera eccetera. Ma è un gioco al quale io mi prendo la responsabilità, dicendolo con fermezza, di non voler giocare. Per carità, fischiando Marek non si è lesa nessuna maestà; ma io stigmatizzo l’onta, la vergogna, l'incompetenza da occasionale, la aggressività da branco, non certo la maestà lesa o profanata. Dico solo che io non ci sto e chi ci sta ha, ovviamente e ci mancherebbe altro, i miei stessi diritti ad urlarlo; a Napoli parlare è un’esplosione musicale e il gusto di intonare parole e modulazioni gonfia i significati fino a farli esplodere. Io inchiodo i fischiatori al dovere di assumersi oneri e responsabilità ideologiche e comportamentali. Ma noi siamo un popolo di cannibali, cannibali di corpi e di anime.
Il mio #spallaspalla, oggi, è solo per lui.