Ultras sbattuti in prima pagina, ma il nesso tifo-clan è fragile
di Errico Novi
Ci siamo cascati di nuovo? Forse sì. Da tre giorni i media napoletani danno grande risalto alle dichiarazioni fatte da un pentito davanti ai pm anticamorra, parole che illuminerebbero l’oscura sequenza di rapine ai danni di giocatori del Napoli. Secondo la sintesi proposta soprattutto nei titoli di martedì scorso, i mandanti di tali agguati andrebbero ricercati tra i capi ultras delle curve napoletane. E com’è che non li hanno ancora arrestati? Siamo di fronte alla vertigine dei paradossi: non c’è gruppo di persone che sia più schedato, più sorvegliato e controllato dei militanti del tifo. Trovate un altro caso di presunti nemici della pubblica incolumità sui quali esistano fascicoli e informative più dettagliate di quelle che la “Squadra tifoserie” della Questura realizza ogni giorno sugli ultras. Sono più indagati loro di qualunque camorrista. Tanto per essere banali, i camorristi non trascorrono le ore della loro massima esposizione pubblica in un luogo scandagliato da decine di telecamere. Con i camorristi difficilmente può capitare che prima dell’arresto siano accompagnati nei loro spostamenti da intere pattuglie di poliziotti. Se dunque fossero state attendibili le accuse attribuite al pentito Salvatore Russomagno, secondo cui i capi dei gruppi organizzati sarebbero i mandanti delle rapine, le persone in questione sarebbero già in manette.
E allora? Forse basta leggere con attenzione gli eccellenti report che i giornalisti napoletani hanno pubblicato nelle ultime ore sulla vicenda. Secondo uno dei migliori cronisti di giudiziaria che si conoscano a Napoli, Dario Del Porto di Repubblica, Russomagno avrebbe in realtà dichiarato semplicemente che “talvolta gli orologi sono stati anche restituiti: non so chi commise le rapine ma sono stati i Mastiffs a fare avere indietro gli orologi”. Cioè, di cosa si parla? La gola profonda avrebbe detto al pm Francesco De Falco di non sapere chi ha effettivamente ordinato i raid. I Mastiffs, gruppo egemone della curva A, si sarebbero adoperati perché il prezioso Rolex di Valon tornasse al legittimo proprietario. Non per dare sfoggio di cinismo: ma davvero credete che a Napoli ci si debba rivolgere per forza a un capocamorra per riavere uno scooter, o un orologio, rubato? No, purtroppo non è così. Nei quartieri dove le gang del banditismo metropolitano sono più insediate, la metà dei residenti conosce direttamente almeno un affiliato a un cartello criminale. O addirittura ne è parente, parente stretto, consanguineo. Come vi spiegate le orde di donne armate di scope che sciamano in difesa del piccolo spacciatore quando arrivano ad arrestarlo i carabinieri? Triste? Sì, molto.
Ancora. La notizia originaria – meno clamorosa di quanto potesse sembrare a un primo sguardo, come si vede – ha un’inevitabile evoluzione successiva: i gruppi ultras del San Paolo sarebbero espressione organica e funzionale dei clan malavitosi. Proprio così? No, nemmeno i quotidiani che hanno dato maggiore spazio alla vicenda sostengono una tesi del genere. E qui torna utile il Mattino, e in particolare un altro eccellente giornalista specializzato in cronaca giudiziaria, Giuseppe Crimaldi. Nel suo articolo di mercoledì riporta alcuni passaggi di un’informativa riservata della Questura sullo stato dell’arte del tifo militante azzurro. Vi si legge che tra gli “iscritti ai gruppi” c’è un “elevatissimo numero di soggetti pregiudicati. Molti per reati comuni”, spiega Crimaldi, “un cospicuo numero di reati per droga, una percentuale anche consistente per reati da stadio. Pochi quelli segnalati come presunti affiliati ai clan della malavita organizzata”. Lo dice la Questura, dunque. Non c’è un rapporto organico e funzionale. Le sigle del tifo militante non sono propaggini dei cartelli criminali. Difficile che la polizia sia afflitta a riguardo da un’insufficienza di informazioni. Siamo sempre lì: gli ultras sono molto più schedati dai camorristi perché agiscono in pubblico e possono essere seguiti nei loro spostamenti, diversamente dai latitanti o dai narcos degli inaccessibili fortini di Scampia.
Certo, nella stessa pagina dove compare l’articolo di Crimaldi, il Mattino di mercoledì riporta un’accurata mappa dei gruppi organizzati con relativo quartiere di insediamento e le “aderenze” di ciascuno con i clan malavitosi della zona. Aderenze. Vuol dire che per alcuni pregiudicati “iscritti” a determinarti gruppi esistono “aree di commistione evidente” con le famiglie malavitose di determinati quartieri, come scrive il Mattino. E anche qui, scusate, siamo al discorso di cui sopra: vi sorprende davvero? A Napoli ci sono rioni in cui il “guappo” della situazione diventa tragicamente un’istituzione sociale. E appunto i cartelli criminali sono così ramificati e consistenti che è statisticamente molto probabile avere legami anche di sangue con loro affiliati, per chi vive lì. Riguardo ai presunti legami tra ultras e camorra, siamo dunque ancora fermi a quanto dichiarò al sottoscritto un funzionario della Digos napoletana, Marco Cante, in un’intervista rilasciata dodici anni fa per il settimanale Napoli Metropoli: tra militanti del tifo e clan della camorra non si può parlare di legami organici ma di “contiguità territoriale”. È ancora così, dodici anni dopo. Dire che gli ultras sono in curva in quanto struttura funzionale dei gruppi criminali è infondato. D’altronde è improbabile che la camorra si ramifichi in cose che non siano significativamente redditizie: e il tifo in curva produce affari solo per gli avvocati che difendono i ragazzi colpiti da Daspo. Certo, che in certi quartieri sia praticamente ordinario, per gli ultras come per i commercianti, avere personalmente a che fare con parenti, conoscenti, datori di lavoro e interlocutori di ogni genere effettivamente affiliati alla camorra, è cosa triste, sicuramente. Ma può esserne sorpreso solo chi ha chiuso gli occhi sull’abisso in cui è sprofondata da troppi anni la sua città.