Massimo Troisi, il genio gentile di Napoli
di Boris Sollazzo
“Non so cosa teneva “dint’a capa”,
intelligente, generoso, scaltro,
per lui non vale il detto che è del Papa,
morto un Troisi non se ne fa un altro.
Morto Troisi muore la segreta
arte di quella dolce tarantella,
ciò che Moravia disse del Poeta
io lo ridico per un Pulcinella.
La gioia di bagnarsi in quel diluvio
di “jamm, o’ saccio, ‘naggia, oilloc, azz!”
era come parlare col Vesuvio, era come ascoltare del buon Jazz.
“Non si capisce”, urlavano sicuri,
“questo Troisi se ne resti al Sud!”
Adesso lo capiscono i canguri,
gli Indiani e i miliardari di Holliwood!
Con lui ho capito tutta la bellezza
di Napoli, la gente, il suo destino,
e non m’ha mai parlato della pizza,
e non m’ha mai suonato il mandolino.
O Massimino io ti tengo in serbo
fra ciò che il mondo dona di più caro,
ha fatto più miracoli il tuo verbo
di quello dell’amato San Gennaro”
Una poesia. Una lettera d’amore e d’addio. Tutti la ricordiamo letta da un Arbore attento, concentrato, infine commosso. Ma ostinato a finirla. Accanto a lui Roberto Benigni, per una volta triste e composto, imbarazzato dal sentirsi declamato dall’amico e in fondo mentore (al cinema, Renzo, ha diretto Roberto, prima che quest’ultimo potesse solo immaginare di arrivare all’Oscar). Poi il piccolo diavolo si alza, cercando di distogliere l’attenzione dall’amico in lotta con le lacrime, e dedica l’applauso che gli viene tributato al sodale Massimo Troisi. Fa quasi una piroetta, ma non è il solito giullare, è un uomo a cui hanno strappato il compagno di giochi.
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