Anche io ho accerchiato un pullman dopo una sconfitta. Per urlare il mio amore
Era il 28 febbraio 2011, un lunedì per l'esattezza. Milan - Napoli 3 a 0: Ibrahimovic, Boateng, Pato.
Eravamo reduci dalla cocente eliminazione da quella che, per spirito romantico, chiamerò Coppa Uefa; eliminazione ad opera di un Villareal più che abbordabile, addirittura passammo in vantaggio noi in quel giovedì 24 febbraio, sembrava fatta. Furono Nilmar e Rossi, allo scadere del primo tempo, a dirci di no.
Nel giro di cinque giorni, nell'arco di 180 minuti vedemmo sfumare tutte le nostre velleità di Europa e tricolore. Non ci era rimasto nulla in mano. Lo ricordo più che pungente quel freddo lunedì milanese. Sì, ero lì. Uscimmo dallo stadio e per evitare il traffico post partita, anziché dirigerci verso la nostra auto, decidemmo di fermarci in un ristorante in prossimità della Scala del calcio a mangiare qualcosa. Io e mio fratello eravamo distrutti, affranti, arrabbiati al punto da non sentire più nemmeno il freddo, al punto da non avere fame. Il nostro Napoli ancora una volta non era praticamente sceso in campo: per l'ennesima volta assistemmo ad una partita già scritta dall'inizio, per l'ennesima volta ci consegnammo nelle mani dell'avversario con atteggiamento remissivo, per l'ennesima volta avemmo la netta sensazione di essere vittime sacrificali, per l'ennesima volta la nostra mini trasferta a San Siro si rivelò una pura mortificazione. Pena mista a schifo. Eravamo vuoti di tutto. Ci chiedevamo che senso avesse continuare ad andare a vedere il Napoli a Milano.
Usciti dal ristorante imboccammo silenziosi la via che porta alla Tangenziale Ovest, il nostro unico desiderio era quello di raggiungere casa per abbandonarci a i nostri cuscini e dimenticare. Sulla via verso quella Tangenziale incrociammo il pullman del Napoli; ricordo che in quattro o cinque macchine accerchiammo il pullman con dentro i nostri calciatori e cominciammo a suonare i clacson, stendendo le nostre sciarpe, da un finestrino all'altro, riuscimmo anche a coordinare un coro che prese vita con nitidezza: "è per te è per te è per te io lo canto per te ovunque sarai ci sarò non ti lascerò mai...". La mia Renault si trovava alla sinistra del bus e non dimenticherò mai la testa di Victor Ruiz, appoggiata con pesantezza al finestrino, che si sollevò: fece un cenno con la mano e, con un mezzo sorriso sul viso, si voltò verso l'interno del bus cercando forse complicità nei compagni. Era incredulo. L'unico altro giocatore che riuscii a distinguere fu Gargano che non si mosse di un centimetro. Nessuno, fra tutti quei mercenari seduti sul bus, ebbe la forza di alzarsi, salutare, rispondere. L'entusiasmo che fuoriusciva dai finestrini di quelle quattro o cinque auto era direttamente proporzionale allo sconforto che si avvertiva chiaramente su quel mezzo. Anche loro, come noi poco prima, non vedevano l'ora di abbandonarsi ai loro cuscini per dimenticare.
Ricordo anche con nitidezza la testa pelata di un poliziotto che fece capolino dal finestrino di una pattuglia che stava scortando la squadra verso l'aeroporto: era preoccupato perché stavamo intralciando la viabilità, ma non fu un intervento scorbutico, non si leggeva nervosismo nelle sue espressioni; mi guardò esclamando qualcosa tipo "E dai!", con quella mimica facciale quasi a chiedere scusa, quasi a volerci dire: "Lo so che vi arrampichereste sul pullman, capisco il vostro entusiasmo, ma guardate dietro che cazzo di coda avete fatto!". Ci accodammo al bus e lo seguimmo anche in autostrada, continuando a suonare.
Quella sera, dai finestrini di quel pullman, nessuno si affacciò per salutarci e ringraziarci, ma a me e mio fratello non importò molto. Capimmo che erano affranti quanto noi. A me e mio fratello non importava più niente del Milan, del Villareal, dell'ennesima sconfitta a San Siro, dei soldi del biglietto, del mezzo rigore a Ibrahimovic o del tempo dedicato alla nostra squadra: no, non ci fotteva più un cazzo di niente.
Io e mio fratello quella sera andammo a letto felici.