Se pensate che abbiamo esagerato con le autocelebrazioni è perché non avete ancora letto le retró-pagelle dell’anno
di Errico Novi
TANIA SOLLAZZO – E adesso da dove comincio? Da Tania: prima le donne. Ma voglio dire, come faccio a trovare i nomi giusti? Chi conosce questa rubrica sa dov’è il problema. A ogni partita si danno i voti ai giocatori del Napoli, non con i numeri e nemmeno con i giudizi come alla scuola media, ma con gli azzurri del passato. Se Higuain gioca benissimo può arrivare fino a Careca, per dire. Se è in una brutta domenica, be’, lui al di sotto di Calaiò non può andare. Ma con i giornalisti come si fa? E con una donna, poi, ardente di entusiasmo per i colori azzurri, dove vado a pescare un paragone adatto, un accostamento che sia degno di lei? Devo per forza scegliere una donna? Impossibile, se ne sono avute troppo poche purtroppo. E allora mi piace l’idea di mettere a Tania in pagella il seguente voto: ANTONIO FONTANA. E’ stato il radiocronista del Napoli all’epoca di Diego. Faceva le radiocronache e anche il commento alle differite su Canale 34. Era un tifoso vero. E c’è una cosa che non dimentico, una frase a Radio Kiss Kiss mentre ci raccontava Inter-Napoli. Ci fece vedere come se ce li avessimo avuti davanti agli occhi Careca, Carnevale e Maradona che si scambiavano la palla sulla trequarti come globetrotters. Me lo ricordo come se fosse ora: «…e il Napoli sembra una squadra brasiliana…». E poi si sentì un singhiozzo. Antonio si era commosso mentre lo diceva. Era la domenica in cui l’Inter avrebbe dovuto vincere lo scudetto, ma noi andammo lì con l’orgoglio dei veri campioni per rovinargli la festa. Ecco, Tania è orgogliosa. Lei non vuole perdere, ha la fierezza di un condottiero. E’ l’entusiasmo gioioso di una ragazzina. Quando l’ho vista all’opera le prime volte, con i pezzi su Insigne e le sue urla di gioia alle partite che vedevamo nel suo salotto, capii che ero capitato nel posto giusto. Nell’avventura giusta. Con persone più pazze di me, travolte da una furia magnifica e assoluta per il mio magico Napoli. Senza freni. Ecco, Tania non ha mai fatto calcoli da ragioniere, nel dire le cose che pensava, nelle cose che ha scritto su Benitez e sui suoi ragazzi. Ma non ha mai perso neppure il piglio del condottiero. Come Antonio quando ci portava per mano all’urlo finale della vittoria.
ALESSANDRO DE SIMONE – Alessandro ha scritto poco, in questo primo anno di Extranapoli, molto meno di quanto mi sarebbe piaciuto. Ma anche lui mi ha aiutato a capire che ero finito con le persone giuste, in un venerdì di fine settembre. Ci aspettava Genoa-Napoli, avevamo preso una mezza botta in casa con il Sassuolo. Serviva la rivincita. Proprio con i fratelli genoani, poi. Serviva anche chi desse sostanza alla comunione profonda che c’è tra noi e questa tifoseria. Che è una storia di sentimenti veri, difficile da spiegare. Lui mi fece vedere esattamente quello per cui non trovavo le parole con un magnifico articolo sui cantautori delle due scuole, genovese e napoletana. De André e Pino Daniele, Paolo Conte (genovese ad honorem) ed Eduardo Bennato. Scrisse cose che non avevo mai letto da nessuna parte, su nessun giornale napoletano, che fosse sportivo o generalista. Fu un altro regalo. La certezza che insieme con questi amici saremmo riusciti, tra le altre cose, a parlare del Napoli in modo diverso, con la precisa volontà di descrivere la nostra passione in tutte le sue possibili declinazioni, anche le più nascoste. Ma a chi lo paragono Alessandro? Chi vale quanto lui, nei miei ricordi di ragazzino affamato di calcio e di notizie? L’unico che io ricordi capace di mettere insieme le due cose, in qualche modo, è RICCARDO CASSERO. Fu lui ad avere un’intuizione geniale, nel 1975, dopo che i tifosi del Napoli nella trasferta all’Olimpico con la Lazio avevano festeggiato la vittoria con un coro mai echeggiato fino ad allora allo stadio, “oj vita, oj vita mia…”: Cassero dirigeva all’epoca il settimanale Lo Sport del Mezzogiorno, e celebrò la bellissima e trascinante esplosione corale dei 30mila partenopei in trasferta con un titolo a tutta pagina, sovraimpresso a una foto di gradinate gremite, che recitava appunto “Oj vita, oj vita mia”, con sotto il pentagramma che riproduceva le note esatte della canzone. Questo signore ha inventato il nostro inno. Pensate un po’ cosa sono capaci di fare i giornalisti, ogni tanto.
DARIO BEVILACQUA – Anche lui mi ha aperto gli occhi sull’enorme possibilità di raccontare il pallone in modo diverso che Extranapoli ci ha regalato. Il suo primo articolo fu un bellissimo saggio sul registro popolare in cui il calcio, come fenomeno, sembrerebbe collocarsi. Con l’allusione non troppo nascosta che in fondo nessuno può insegnarci qual è una passione sana da coltivare, o la forma di espressione umana a cui conviene educare lo spirito. Anche qui dissi: ma dove sono capitato? Ma dove stavano nascosti sti ragazzi, com’è che Extranapoli non esisteva già da prima? E soprattutto, ma dove lo trovi un giornalista anche del passato che si sia occupato di Napoli e che potesse scrivere di cose simili? Devo andare a ripescare NICOLA PUGLIESE, che in realtà è stato uno dei più grandi giornalisti culturali che Napoli abbia mai avuto e che è anche autore di un romanzo straordinario e struggente, Malacqua, solo di recente ridato alle stampe. Credo che Pugliese abbia fatto incursioni rare nel calcio, Dario per fortuna ci si dedica spesso.
ANTONIO MOSCHELLA – Competenza e rigore. E una familiarità non comune con il Sudamerica, che quest’anno gli ha consentito di diventare in pratica il corrispondente del Mattino dall’Argentina. Una “missione” con precursori importanti come Oreste Bomben. Antonio ci ha riportati con i piedi per terra ogni volta che la Banda Benitez ci ha illusi: forse lui è riuscito a leggere meglio di noi una certa inquietudine che i calciatori di lingua castigliana si portano dentro, sembrano tutti personaggi del Corrida: la morte del torero di Picasso, sempre sospesi tra amore e resa dei conti finale. Non c’è una grande tradizione di giornalisti sportivi napoletani con uno sguardo sull’universo d’oltreconfine, mi viene in mente però che negli anni Settanta a fare il capo dello sport nel Roma di grandi direttori come Piero Buscaroli ed Enzo Erra era ANTONIO SCOTTI, un galantuomo, un signore di eleganza raffinatissima e con una padronanza non comune per gli anglicismi. Scotti, soprattutto, viene descritto da chi ha avuto la fortuna di lavorarci assieme come una persona sempre allegra, positiva. Uno che aveva capito che fortuna è dover scrivere di calcio per vivere. Pure Antonio mi dà l’idea di averlo capito benissimo.
FRANCESCO BRUNO – Non ricordo che partita era. Comunque era la prima volta che vedevo una partita del Napoli dalla Tribuna stampa. Mi chiesi subito: ma qui potrò esultare? Ero lì per un settimanale, non avevo bisogno di scrivere il pezzo subito e neppure avevo appresso il pc portatile (forse manco ne possedevo uno). Cominciai a studiarmi i colleghi, alcuni li conoscevo, qualcuno aveva la mia età, collaborava con radio e televisioni, altri erano già più navigati. Tutti troppo seri, pensai. Qui se mi muovo faccio la figura del peracottaro. Poi vidi CICCIO MAROLDA. Con i suoi baffi, il suo sorriso invisibile. Pensai: ecco, questo non solo non esulta al gol, ma se si accorge che lo faccio io mi caccia a calci nel sedere. Entrai definitivamente in uno stato di soggezione psicologica. Marolda era per giunta il giornalista che aveva raccolto il testimone e l’onore di prima firma dello sport del Mattino dal grandissimo Giuseppe Pacileo, una specie di Gianni Brera partenopeo. Questo ruolo prestigioso rendeva Marolda ai miei occhi ancora più irraggiungibile. La partita fu difficilissima e ancor più delicata: era l’anno di Ulivieri, se non avessimo vinto avremmo definitivamente perso ogni speranza di promozione. Segnammo a pochi minuti dalla fine. Tutti fermi, gelidi davanti ai loro computer, solo dall’altra parte della Tribuna stampa, dove di portatili non se ne vedeva neppure l’ombra, si diedero a urla liberatorie e sfrenate. Ma io ero in mezzo a quelli che stavano lì per lavorare sul serio. Un istante e vidi all’estrema sinistra della fila Marolda esultare: fu l’unico a farlo. Un tifoso vero, sempre impassibile, pacatissimo, che però al momento giusto non aveva ipocrisie che potessero trattenerlo. Francesco Bruno è un tifoso sfrenato che sa usare le parole con rigorosa misura come se stesse scrivendo un saggio di diritto penale. Salvo esplodere giustamente, al momento opportuno.
ERRICO NOVI – Eccoci qua, e io chi potrei essere? Ho fatto il buffone per un anno intero con questa rubrica, che nella sua forma abituale è un campionario di vergognose sciocchezze. Poi mi sono lasciato clamorosamente prendere la mano quando ho scritto contro la Juve, con un grado di faziosità davvero ignobile. Ma le cose in cui mi sono sentito più a mio agio sono quelle che ho scritto sui tifosi, sulle curve, gli ultras. Non pensavo esistesse uno spazio dove occuparsi in un certo modo di queste cose, e invece Extranapoli me lo ha regalato. Non posso che autoassegnarmi, come voto, LUIGI NECCO, nella versione sempre attorniata da una folla festosa e genuina.
GIULIO SPADETTA – Vedete, la cosa che mi è parsa più incredibile in quest’anno è stata il fatto che del Napoli si possa scrivere esattamente come ho sempre sognato: non solo la partita, il campo, le interviste, i bollettini degli infortunati, ma una specie di racconto collettivo sulla nostra vita, un viaggio interminabile in una passione che scandisce tutto quello che ognuno di noi ha vissuto. Giulio mi ha dato conferma che non sono l’unico pazzo a vederla in questo modo. Non potrò più dimenticare un suo amarcord su Napoli-Fiorentina, in cui rievoca una partita tra azzurri e gigliati di fine anni Settanta. Lui ricorda esattamente in quale posto si trovasse, poco più che moccioso, che macchina avesse suo padre, che tipo di abitudini avesse la sua famiglia per il fine settimana. In pratica la vita è la colonna sonora della passione per il Napoli, che è l’elemento centrale attorno a cui ruota tutto il resto. Proprio come la vedo io. Sì, è una roba da pazzi, ma chi se ne frega. Soprattutto se trovi uno che la sa raccontare con l’implacabile ed elegantissima penna di Giulio. Un sarcasmo irresistibile, una passione che più è frustrata dai risultati che non arrivano e più trova sfogo in un’ironia pungente e spietata, tipicamente napoletana, di quella napoletanità alta di cui dovremmo essere orgogliosi. Anche per Giulio c’è la seria difficoltà a trovare un esempio tra i giornalisti sportivi napoletani del passato che gli si possa accostare. Forse l’unico che può andare bene è ANTONIO GHIRELLI: non a caso fu lui, da direttore del Corriere dello Sport, a inventare un format, “Il romanzo del campionato”, che ha qualcosa a che vedere con la capacità di Spadetta di tornare alle cose azzurre del passato come se fossero pagine di grandi racconti. In realtà lo sono, ma a saperne scrivere sono pochi.
MANFREDI “FREDDY” ADAMO – Finché ci saranno persone come lui, come Manfredi, Napoli è salva. L’orgoglio e l’amore per Napoli che c’è in Don Ciro, sua magnifica invenzione letteraria, sono l’essenza del nostro popolo. C’è una grande pagina di Pier Paolo Pasolini, che in realtà non è stata scritta da lui ma raccolta Antonio Ghirelli a metà degli anni Settanta. Le parole di Pasolini sono queste: «Napoli è una tribù che ha deciso di non arrendersi alla modernità, e questo suo rifiuto è sacrosanto». È forse la cosa più bella e vera che qualcuno abbia mai detto sulla nostra città. Forse è stata vera fino a un quarto di secolo fa, forse Napoli è passata con brutale violenza dal premoderno al postmoderno, ha saltato quello che c’era in mezzo e forse, almeno in parte, si è perduta nel tragitto. Forse, ma se è così non è del tutto così. Perché una parte meravigliosa della nostra storia, del nostro modo tutto particolare di amare la vita, è salva ed è nascosta in ciascuno di noi, anche se non lo vogliamo vedere. E come mi è venuto di scrivere su questo sito in un lungo e un po’ delirante pezzo dopo Marsiglia-Napoli, il calcio ha una sua forza in questo: rivelarci nei suoi momenti migliori l’amore che abbiamo davvero, la verità di quello che siamo. Manfredi con Don Ciro ci riporta a tutto questo, è come se ce ne facesse sentire la voce. Anche qui sono in difficoltà: nella storia del giornalismo sportivo napoletano, almeno in quella che conosco io che fino a prova contraria ho appena 43 anni, uno con questo talento non ricordo di averlo neppure sentito nominare. Ma almeno ad essere incastonato nella napoletanità con sorridente e geniale inconsapevolezza, uno ce n’è stato, ed è GIUSEPPE PACILEO.
DOMENICO ZACCARIA – Ero sulla spiaggia e avevo 11 anni. L’Italia aveva da poco vinto i Mondiali di Spagna. Una gioia sportiva, devo confessarlo, che viene un gradino dopo solamente rispetto a quelle provate nell’anno del primo scudetto. Cominciai a comprare la Gazzetta dello Sport nel giorno della gara d’esordio, Argentina-Belgio, e non smisi più. Comprai quello che mi sembrava il giornale sportivo per eccellenza – senza neppure rendermi conto davvero di quanto fosse milanocentrico – tutti i santi giorni. Mio padre mi guardava con un misto di stupore, sconcerto e orgoglio. Gli altri ragazzini non leggevano neppure Topolino, io avevo la Gazzetta sotto al braccio ogni mattina manco fossi un giornalista sportivo. Mi chiesero: ma chi è il tuo modello? Non esitai un attimo: «Gianni De Felice», dissi. Che poi non era neppure della Gazzetta ma di un’altra mia recente passione, il Guerin Sportivo. Ecco, ancora oggi se dovessi dire a quale giornalista sportivo mi piacerebbe assomigliare risponderei ancora: Gianni De Felice. Nitido, spietato con i potenti, severo nei giudizi, e soprattutto lucido nelle idee e chiarissimo nella scrittura. Qui le cose rispetto alle altre pagelle si ribaltano: io vorrei assomigliare a De Felice ma De Felice assomiglia terribilmente a un altro, cioè a Domenico. Ecco, Domenico è stato un’altra incredibile scoperta: com’è che la prima firma sportiva del Mattino non è lui? Ecco la domanda. La cosa incredibile è che ce l’abbiamo qui ad Extranapoli, che un modello da portare nelle scuole quale lui è scrive su un sito, per diletto, e nella vita di mestiere fa il giornalista da tutt’altra parte. L’amore per il Napoli, vedete, fa venire fuori sempre la verità.
BORIS SOLLAZZO – Io amo Francesco De Gregori. Gli amici di vecchia data lo sanno bene: ricordo che al mio ventiseiesimo compleanno mi venne la folle e costosissima idea di festeggiare con un concerto di “Ciccio” all’Augusteo, biglietti pagati da me per tutti. De Gregori dice molte cose vere, ma la più vera di tutte è questa: «Quello che non so/ lo so cantare». Ecco, Boris scrive quello che non sappiamo ma che c’è. Nel cuore di ognuno di noi. Non so dove trovi le parole, dove riesca a trovare la forza di spingere il suo cuore fino a catturare emozioni incredibili, fatto sta che lui ci riesce. Boris ha l’amore dentro. L’amore per il Napoli. Lui è l’unico di tutti noi che sia riuscito a non farsi prendere dallo sconforto dopo la notte del 3 maggio, quando da subito è sembrato che la situazione di Ciro fosse disperata. Non so dove ha trovato le parole, non so dove ha preso la forza, ma le cose più belle che io abbia letto in giro su Ciro Esposito le ha scritte lui. Boris è sempre in anticipo sui sentimenti degli altri: noi proviamo delle cose, lui le riesce a scrivere prima. E ha una generosità che non ricordo di aver visto in altri. E poi appunto ha una penna che quando viene giù scrive musica. E c’è una cosa che rende Boris diverso da tutti gli altri: ci sono un sacco di bravi giornalisti che si occupano del Napoli, alcuni scrivono libri, altri parlano alla radio; Boris fa tutte queste cose, con una differenza: è vero. È l’unico che scriva sinceramente quello che sente, che racconti esattamente quello che ha dentro. È la voce di tutti noi, quella che quando racconta non può mentire, semplicemente perché è la nostra. Devo andare a cercare uno che abbia il cuore, la genialità, l’ironia di Boris e che abbia scritto in passato del Napoli. C’è solo un nome: MIMMO CARRATELLI.
FRANCESCO ALBANESE – La cosa incredibile di noi napoletani è che non abbiamo bisogno di rispondere ai cori. E una delle cose più belle che mi siamo mai capitate allo stadio è di quest’anno, Roma-Napoli di campionato, quando è partito un “Vesuvio lavali col fuoco” da far venire giù la copertura dell’Olimpico, e dai tremila partenopei assiepati nel settore ospiti è partito un unico, fragoroso , scrosciante applauso. Noi non abbiamo bisogno di rispondere ai cori perché abbiamo portato il talento e reso più civile questo Paese in ogni campo della vita associata. Dal diritto alle costruzioni, dalla scienza alla filosofia, dalle finanze all’amministrazione, con un senso dello Stato che se solo sapessimo mettere al servizio anche della nostra città saremmo la capitale del mondo. Tra i napoletani che hanno portato il loro talento a esempio in altre città del Paese c’è un nome che ha fatto la storia del giornalismo sportivo nazionale, ed è quello di GINO PALUMBO. Un signore che prima ha fatto il capo dello sport al Mattino, poi ha fondato Sport Sud, poi se n’è andato a Milano ed è finito a fare il direttore della Gazzetta, del più importante quotidiano sportivo del Paese e fra i tre o quattro giornali sportivi più prestigiosi d’Europa. Palumbo è stato il rivale di Gianni Brera, ha portato un modello di stile, eleganza, professionalità, capacità direttive che ha lasciato Milano ad occhi aperti. Un napoletano che fa queste cose: manco immaginavamo potesse esistere, si sono detti lì. Francesco è un ragazzo nato a Roma ma figlio di napoletani, molto più di quanto non lo sia io: lato materno del Pallonetto di Santa Lucia, lato paterno di Secondigliano. A un certo punto non so ancora bene come gli è venuta in mente questa idea, questo sito. E ha visto più lontano di tutti, come riesce di fare solo ai grandi. Ha capito che c’era un mondo da raccontare, nonostante di siti sul Napoli ne esistessero già una marea. E ha messo insieme prima Enzo, poi Boris , poi me, quindi Domenico e tutti gli altri. E ha avuto una lucidità, una chiarezza di idee, una forza che non ha mai avuto bisogno di imporsi perché è stato da subito il nostro Comandante. Ci ha aiutati a costruire questo posto aperto e pieno della nostra passione, e ci ha aiutati a farlo arrivare ai tifosi del Napoli più lontani che si potessero immaginare. Senza di lui non avremmo avuto la fortuna di conoscere altri amici straordinari come NELLO DEL GATTO, che è stato per un sacco di tempo il più importante avamposto del sistema dell’informazione italiano in quell’altro mondo che è la Cina, che solo da poco è rientrato in Italia ma che fino a poche settimane fa per vedere le partite del Napoli con gli altri componenti del Club Napoli Shangai di cui è presidente doveva darsi appuntamento dopo una giornata di lavoro passata tra Hong Kong e Pechino alle 2 di notte, quando noi dormivamo. E Francesco altri mondi ce li ha raccontati con la sua penna straordinaria, ci ha fatto vedere come se ce li avessimo davanti posti così esotici da non essere neppure sull’Atlante dove pure è riuscito a scovare qualcosa di azzurro. Ci ha fatto incontrare e conoscere tifosi di ogni parte d’Italia e d’Europa con qualche puntata in America, che era esattamente quello per cui all’inizio questa storia è venuta fuori. Ha sempre saputo dove portarci, vede le cose con qualche semestre di anticipo rispetto a noi altri. Ha dei grandi direttori come Gino Palumbo la certezza della meta e nessun bisogno di alzare la voce, perché un comandante è tale proprio perché sono gli altri che lo sanno, non lui a doverlo ricordare.
E vabbe’, certo, ci mancava il ritorno a casa di Ulisse da Penelope e il poema era completo, penserete. D’altra parte vi avevamo avvertito via twitter: saremmo stati molto autocelebrativi. Se pensate che abbia esagerato, sappiate che un sacco di amici avrebbero dovuto avere la loro pagella e non l’hanno avuta, perciò vi è andata pure bene. Alcuni sono così giovani che paragonarli a giornalisti del passato mi fa venire le vertigini: ALESSIO CAPONE e GIANMARIO MARINIELLO innanzitutto. Bravissimi. Altri ci hanno regalato piccole chicche da altri universi, perché tifosi di altre squadre, ma lo hanno saputo fare con la giusta ironia e senza farci venire neppure per un attimo il dubbio di esserci allargati troppo: parlo innanzitutto di ENRICO BRUNO e poi di FABRIZIO MASSANTINI, LUCA IANNI, PAOLO COLANTONI. E altri ancora ce ne sono, di fede azzurra e non, giornalisti, tifosi, amici. Ma c’è un signore senza il quale tutto questo non esisterebbe, o al massimo sarebbe come il protagonista del videogioco nel film di Salvatores Nirvana: un fiocco di neve che non cade in nessun posto. Si chiama ENZO DE MARI, e lui una pagella deve averla per forza. Enzo è il nostro webmaster. Extranapoli è perché Enzo l’ha creato. In tutti questi 12 mesi lui c’è stato sempre, nonostante viva a Berlino e abbia un mucchio di altre cose, e di altri siti, a cui star dietro. Noi di Extranapoli comunichiamo via whatsapp per organizzare le cose da pubblicare, e anche per cazzeggiare. Enzo non interviene, è iscritto alla chat e quindi gli si scarica sullo smartphone l’infinita mitragliata di messaggi che scandisce ininterrottamente il tempo di noi tutti da un anno a questa parte, ma non può star dietro a tutte le nostre follie. Eppure, quando nel mare di parole lo nominiamo, lo invochiamo bisognosi del suo aiuto, lui puntualmente c’è. Come se vegliasse su di noi. Una cosa di cui gli dobbiamo essere grati. Più che un semplice giornalista, devo chiamare in causa un grande giornalista-editore napoletano che oltre ad essere stato direttore del Mattino ha fondato il Giornale di Napoli, cioè il posto dover ho iniziato a lavorare, dove ho fatto il “praticantato” e sono diventato giornalista: ORAZIO MAZZONI. Ecco, Enzo per me è come quel grande regista silenzioso del giornalismo napoletano, capace di mettere in piedi un ingranaggio così ben congegnato da riuscire poi a farlo camminare da solo, senza il bisogno di stargli dietro ogni momento. E poi l’accostamento vale anche perché come il Giornale di Napoli è stato la mia culla, Extranapoli è stato per me un nuovo inizio. E visto che si tratta del Napoli, è praticamente impossibile che me ne separi.