Di Antonio Moschella
Il 22 dicembre è un giorno significativo di per sé. Inizio dell’inverno, è però anche il momento in cui le giornate iniziano, finalmente, ad allungarsi. Il buio si rimpicciolisce e la luce è più forte. Niente di meglio per disintegrare un animo abbattuto dopo un periodo non felice. Il Napoli è stato il raggio di sole, o meglio il fulmine degli dei a notte fonda, lì in Qatar e anche qui in Italia. Gli azzurri sono stati più forti anche del pasticciaccio brutto di Albiol e Koulibaly, i quali si riscatteranno poi dal dischetto, quando contava cacciare le palle. Quelle palle mostrate senza pudore da Gonzalo Higuain, l’eroe che aspettavamo e finalmente si è manifestato.
Il luogo da me scelto, insieme agli amici di sempre, è lì dove abbiamo passato la maggior parte delle nostre serate da adolescenti, quando racimolavamo i pochi soldi per recarci in Curva negli anni grigi della B, quando i nostri cori erano per Dionigi o per Stellone. Quando la fede era incrollabile, nonostante tutto. Il detonatore del delirio, quella manona di Rafael, ci ha visto festeggiare proprio come avremmo fatto in quegli anni, abbracciandoci come fratelli.
Ieri avrò perso qualche anno di vita, dati i battiti fortissimi del mio cuore, coinvolto compulsivamente come non mai. Perché non ci eravamo mai giocati nessun titolo ai rigori. Perché nel 1990 il trionfo fu agevole, scevro da quel pathos che tanto esalta l’agone infinito. Perché l’ultima volta che avevamo alzato quella coppa avevo 6 anni. Perché ero lì con i miei fratelli. Perché vedevo lo sconforto di Bonuci, Buffon, Nedved, Agnelli e Marotta. Perché per la prima volta, dopo due mesi, sono riuscito ad esultare senza pensare ad altro.
Ieri c’erano le stelle. Erano azzurre. Si riflettevano da Doha a Napoli nonostante il cielo fosse già scuro. E il bambino che c’è in me ha iniziato a piangere. Stavolta di gioia.