Di Antonio Moschella
Sabato scorso mi trovavo, come ogni due settimane, allo stadio Cornellà - El Prat, dove l’Espanyol gioca le sue partite in casa. Quel giorno l’ospite di turno era nientepopodimeno che il Real Madrid di Cristiano Ronaldo, Gareth Bale e compagnia cantante. Su Cristiano mi ero documentato non poco durante il mio recente soggiorno in Portogallo e anche solo una sua risata in zona mista mi sarebbe bastata per aggiungere un tono di colore al mio reportage.
I sei gol inflitti dal Real al povero anfitrione mi avevano fatto quasi dimenticare che in sala stampa dopo sarebbe arrivato il buon Rafa Benitez, uno che nel bene e nel male ci ha fatto vincere due trofei negli ultimi due anni, qualcosa a cui non eravamo abituati. Quando mi sono accorto che il mio pass non mi permetteva di accedere alla conferenza stampa degli allenatori ho maledetto la possibilità di non riuscire ad effettuare una domanda preparata da giorni e alla quale mi avevano incitato altri cuori azzurri su Twitter. L’unica alternativa era la zona mista, per la quale a breve sarebbe passato il campione portoghese. Ecco però che appena arrivo in loco mi accorgo di una presenza familiare: una persona che con una mezza rovesciata in gol nel maggio 1996 mi aveva fatto sognare, a soli 12 anni, di vincere una Coppa Italia poi finita tra le mani del Vicenza mentre io mi perdevo in mille lacrime sotto i rimproveri della buon’anima della mia bisnonna, che non capiva come potessi piangere per una partita di calcio.
Era Fabio Pecchia, quasi in un angolo, senza che nessuno, eccetto un altro giornalista italiano, che gli prestasse attenzione. Mi sono avvicinato e, senza neanche chiedere scusa a chi mi predeva, gli ho stretto calorosamente la mano, suscitando stupore nella sua reazione al vedere un napoletano in quel luogo così periferico. Di lì a poco sarebbe passato anche Rafa, al quale non sono riuscito a fare alcuna domanda (mi perdonino coloro che credevano in me) ma che mi ha risposto con un sorriso sincero dopo aver sentito che non ero spagnolo. In realtà, sarò anche apostata, tra i due il mio mito è Fabio Pecchia, uno che ha giocato 152 partite e segnato 21 gol col mio Napoli, ma soprattutto che ha tirato la carretta in momenti duri e senza gloria, se non una qualificazione in Coppa Uefa o la già citata finale di Coppa Italia contro il Vicenza.
In quel momento mi sono sentito terribilmente nostalgico. E, ripeto, non per l’addio di Rafa, quanto per la partenza di un ‘napoletano’ fatto e compiuto come Pecchia. Tuttavia, nonostante la mediocre prestazione di domenica, mi viene spontaneo ammettere che è inutile guardarsi indietro e cercare scuse negli assenti. Il Napoli resta sempre lì, i colori non cambiano e l’amore persevera: da Maradona a Higuain, passando per Zola, Schwoch, Lavezzi e Cavani, la passione non si intacca. È per questo che è importante usare l’arcinoto proverbio “scordammoce ‘o passato” e guardare avanti, perché leccarsi le ferite e socializzare le cicatrici non serve.