Quelle lacrime di vittoria per il Napoli sono la riscoperta del bello sotto la coltre della città
di Errico Novi
Adesso che la più pesante delle ombre se n’è andata, adesso che non c’è più motivo di sentirci intrusi nell’Europa dei Campioni, corriamo pure col pensiero veloci come il pomeriggio di Napoli-Borussia, tutti certi che Golia è più forte di Davide ma anche memori di come finì tra i due. E invece che verso una notte da favola di fronte ai dortmunder, ci immaginiamo già nella resa dei conti con l’Arsenal. Lì si vedrà tutto, lì si giocherà la nostra avventura. Risuona l’inno della Champions, risuona Oj vita oj vita mia, come li abbiamo già sentiti prima e dopo Napoli-Manchester City di due anni fa. Uguali. E perciò ci ricordiamo di quelle lacrime bellissime, di quello stupore meraviglioso che si chiama gioia, già vissuto, già accompagnato tante volte dalla voce di Massimo Ranieri e dalla chitarra del grande Toto Savio. Ecco, ritorna la nostra meraviglia di essere napoletani, di sentirci legati a vita a un destino, a una terra, a un colore, che è mare e che è cielo, solo per noi al mondo. E tutto questo cos’è? Tante volte ci siamo chiesti perché noi napoletani, noi tifosi del Napoli siamo così diversi dagli altri. Ché tutti gioiscono, per carità, e chissà forse talvolta piangono pure di gioia (ma ci si crede meno). Però lo sappiamo che siamo diversi. E sappiamo pure che quei cori infettivologici riecheggiati da curve del Nord, del Centro e a volte persino del Sud (Foggia, Bari) nascondono l’invidia. Sanno che siamo solo noi così. Che la nostra gioia di appartenere al Napoli è unica, non ce l’avranno mai, e invece di piangere per questa disperazione insultano noi.
Ecco appunto. Che cos’è tutto questo? Perché piangiamo di gioia per il Napoli? Perché solo la nostra passione è così devastante? Non venite a raccontare che tutto dipende dalla nostra naturale allegria. Non diteci che è perché noi siamo solari, ci piace godere l’immediato dell’esistenza, che sia il sole o l’azzurro del mare, senza preoccuparci del dopo. Non diteci che è questo perché è un’offesa e una sciocchezza. C’è qualcos’altro. C’è qualcosa che nasce nel profondo della nostra origine. Nel fatto che la nostra terra è meravigliosa e crudele. Ci penso spesso. Siamo abbagliati dall’incanto più bello che si conosca al mondo, dall’orizzonte più dolce e più prossimo al Paradiso mai visto. Eppure alle spalle c’è una natura padrona e matrigna, capace di cancellare tutto, o di rovinare la meraviglia stessa della vita avuta in sorte. Siamo fatalisti per questo. Perché abbiamo davanti il bello, così come la natura e il Cielo ce l’hanno dati, ma abbiamo anche la minaccia di perderlo per opera di quella natura stessa. Viviamo per l’oggi perché sappiamo che il bello sfugge, all’improvviso.
E la corruzione della nostra vita, di tanta vita a Napoli, viene da quella disperazione fatale. Non c’è cura per l’oggi perché il domani potrebbe portarci via tutto. Perciò noi viviamo la tragedia dell’esistere senza parapetti. Tutta l’umanità è sospesa tra la vita e la morte, ma in un ordine più composto. Il destino fragile dell’uomo a Napoli è ingigantito come il rombo di un vulcano che erutta. Da noi tutto succede “di più” che altrove. Il bene, e il male, l’allegria e la dannazione.
Ed è così che la coltre dell’esistere nasconde spesso quello che siamo veramente. Così noi oppressi dalla disperazione del destino produciamo la camorra, i rifiuti, la negazione di qualunque fede civile. Eppure quello è il portato della natura dei luoghi, appunto, è il male che si addensa come risposta all’incombenza della fine. Eppure noi, noi di Napoli, sappiamo che non siamo solo quello, e che anzi la bellezza della vita, dei luoghi, è sì minacciata, ma c’è. E così sappiamo pure che quel “di più” di dannazione che viviamo, conosce anche un “di più” di bellezza che abbiamo dentro. E che fa di noi quel popolo meraviglioso, in apparenza spensierato, gioioso, accogliente, luminoso, felice, che tutti sappiamo di essere.
Solo che quello è nascosto. Più negato alla parola che sconosciuto alla coscienza, ma nascosto. C’è la coltre del quotidiano che ottunde la vista: le brutture, la sporcizia, il fatalismo, la desertificazione civile. Prevale perché è quotidiano, perché è sempre davanti a noi, perché il filo di questa dannazione è aggrovigliato e forse impossibile da riprendere. Però il bello dentro di noi c’è, e anzi proprio perché non riusciamo ad afferrarlo è più atroce il nostro vivere. Così rimane la faccia sporca, di Napoli. Ben in vista. Che tutti la vedono e ce ne danno colpa, come punizione meritata. E il bello resta da solo, scoperto come una ferita, doloroso come una ferita, eppure bello. Cosicché allo stadio, quando il Napoli vince, è come se il bello riaffiorasse all’improvviso. È come se un gol, una grande vittoria, svelasse finalmente il bello che è in noi e dicesse al mondo: ecco quello che siamo, non le brutture, finalmente appare la verità. È il bene che ritorna dopo aver tanto temuto di perderlo. Ed è sotto gli occhi del mondo.
Anzi siamo noi stessi che finalmente ci riconosciamo. Che ci ricordiamo della natura che ci ha fatti sì un po’ disperati ma soprattutto belli e gioiosi. Un gol, una vittoria sono la scoperta di noi stessi. Il ritorno alla bellezza primigenia che questa terra e questo mare ci hanno dato. È il disvelamento, è l’agnitio del dramma latino. È il meraviglioso sollievo per una verità che finalmente affiora e che ci libera di tutta l’ingiusta dannazione, per lo più inflitta da noi stessi. È come se qualcuno ci riportasse alla bellezza di Napoli di cui tutti abbiamo una memoria quasi prenatale. È come se un gol ci facesse riemergere dalla coltre delle brutture. E ci fa dire disperati “noi questo siamo, perché non riusciamo sempre a vederlo?”.
Piangiamo per questo. È il disvelamento della verità. Ci accorgiamo di essere buoni, anche se lo sappiamo già. E un gol, una grande vittoria, o addirittura uno scudetto, sono tutti simboli, anche simboli un po’ paradossali nella loro infantile ludicità. Eppure funzionano perché in essi ci riconosciamo tutti (tutti quelli che tifano per il Napoli, almeno) e quindi sono una potente occasione di riscoperta identitaria. Di ritorno comune alla bellezza della nostra natura profonda, della nostra origine. Non ci si può che commuovere, per questo. Ecco “quelle lacrime che senso hanno”, come si chiede De Gregori n“Generale”.
E forse ci sarebbe il modo di prendere questa catarsi rituale e trasferirne tutte le energie in un atto di fede civile per la città. In questo la squadra di calcio svolgerebbe una funzione straordinaria. Peraltro spesso evocata, all’epoca del primo scudetto come nell’era De Laurentiis. Tutti i napoletani (quasi tutti) tifano e vanno allo stadio. O comunque tifano da lontano. E anche quelli che non si riconoscono in Napoli, che la rigettano nel suo degrado, che ne prendono le distanze come matrigna indecente e compromessa, difficilmente smettono di tifare per i colori azzurri. Magari hanno perso tutto di Napoli: la casa dove abitavano, la fiducia nelle sue sorti, la partecipazione seppure distante alla sua vicenda civile. Però restano tifosi. Quello sempre. Anche e soprattutto chi ha fatto fortuna altrove: i grandi professionisti, i grand commis dell’apparato pubblico, i grandi manager dell’impresa privata al Nord, anche loro, se sono napoletani, possono dimenticare tutto ma non la squadra di calcio.
E allora è chiaro che nella squadra come disvelamento del bello riposto in fondo all’anima di Napoli, in questo, ci crediamo tutti. E potremmo passare tutti dalla catarsi collettiva – anche se disaggregata – alla fattiva opera di ricostruzione della città. Ma finora non è successo. Nemmeno dopo le vittorie più grandi, quelle del tempo di Diego. Anzi quelli furono anni in cui la dannazione del fatalismo che divora il presente si fece più feroce e famelica. Fino a generare un degrado forse peggiore, seppure negato, negli anni Novanta. Non è successo, dunque. Ma siamo ancora in tempo, visto che abbiamo una squadra di calcio così forte.