«Napoli riabbraccia Pino come una madre con un figlio in fuga»
di Errico Novi
«Solo in una città come Napoli la morte può diventare un’occasione di identità partecipata. La folla di piazza Plebiscito per Pino Daniele rappresenta la diversità di Napoli dal resto d’Occidente, dove oggi la morte è ridotta a evento fisiologico. Qui da noi i funerali sono qualcosa di pubblico, che ricrea legami sociali». A Marino Niola non sfugge la densità di significato dell’ultimo saluto all’Uomo in blues: antropologo dell’università Suor Orsola Benincasa e editorialista di Repubblica, tra i pochi in Italia a esplorare la cosiddetta antropologia dei simboli, Niola riconosce nella scomparsa di Pino un evento che ripropone l’identità partenopea, e anche le sue patologiche esasperazioni.
L’addio a questo straordinario artista proietta i napoletani alla radice di canzoni come Napul’è e Terra mia, espressione irripetibile dell’anima della città. Improvvisamente i napoletani si ricordano cosa sono davvero?
Non so se si può parlare di un ritorno al passato. Vedo però nell’intensità di questo abbraccio a Pino Daniele la natura di Napoli-madre, una madre che reagisce sempre in questo modo quando i suoi figli muoiono. Napoli ama i suoi figli, li trasforma in idoli, ma così rischia poi di non farli crescere.
L’abbraccio di Napoli è materno, cioè troppo soffocante?
Non a caso i figli se ne allontanano. Anche Pino lo ha fatto. Poi, come altri figli di Napoli, è stato dilaniato tra l’impulso della fuga e quello dell’inevitabile ritorno. Ha riproposto a trent’anni di distanza il tour di Nero a metà. Non credo alle premonizioni, ma certo quell’ultimo concerto, con i vecchi amici musicisti di una vita, è almeno un colpo di teatro del fato.
Tutti con lui un mese prima che Pino se ne andasse: Senese, Zurzolo, Tony Esposito, De Piscopo.
Nomi che esprimono anche anagraficamente una volontà di ritorno. Lui ha riabbracciato Napoli prima di morire, ora Napoli lo vuole avvolgere, da madre qual è. E ancora una volta si dimostra per così dire ‘matria’ più che ‘patria’.
In piazza Plebiscito si canta Napul’è, che diventa un inno di appartenenza persino allo stadio. Eppure è una canzone molto amara.
Non c’è da stupirsi. E’ il segno del rapporto disincantato e allo stesso tempo innamorato che i napoletani hanno con Napoli. Esattamente come avviene con una madre, di cui si parla il più delle volte con toni recriminatori, ma poi guai a chi ce la tocca. Noi siamo maestri dell’autodenigrazione. Chi arriva a Napoli e prende un taxi deve invariabilmente sorbirsi il lamento del tassista sulla città che non funziona. Il finale però è sempre del tipo ‘sapete perché mi incazzo ancora di più? Perché Napoli potrebbe essere la città più bella del mondo…’.
E quindi Napul’è funziona benissimo come canzone simbolo…
Allo stadio viene intonata spessissimo prima della partita. Dopo, se si vince, si canta ’O surdato ’nnammurato.
Canzone ancora più triste, in teoria. Ma questo ritrovarsi dei napoletani attorno a Pino può essere anche un punto di partenza per cominciare a cambiare la città?
Non è detto che le cose vadano così. Resta di sicuro una manifestazione corale, spontanea, colma di affettività. Quanto a cambiare le cose, ci vorrebbe innanzitutto la consapevolezza di quello che deve cambiare in noi stessi. Proprio Pino Daniele ha aiutato i napoletani a prendere coscienza della loro natura, tra l’altro. Lo ha fatto come campione della città, esattamente come Maradona e Massimo Troisi, che sono esplosi contemporaneamente a lui. Il campione è un pezzetto che rappresenta il tutto, e questa relazione crea un’identificazione totale tra il campione e la città. Il campione è il simbolo di quella parte della città che è in genere nascosta agli occhi di chi ci vive e che solo lui rende visibile. Tutto questo spiega anche come Napoli sia una comunità più che una città.
Martedì a Cesena c’erano i tifosi del Napoli residenti in Romagna che esponevano striscioni per Pino.
Napoli è una patria, anzi una ‘matria’ diffusa. Che spesso è sotto attacco: parte del pubblico di Cesena gridava ‘Vesuvio lavali col fuoco’.
Nella Napoli che ha consacrato Pino, quella dei primi anni Ottanta, c’era più speranza di oggi?
Era una città per certi versi più disperata. Era segnata dal terremoto, aveva le impalcature, l’eroina faceva vittime. Eppure aveva uno slancio. Opponeva una reazione estetica, una forma di elaborazione. Oggi Napoli non riesce a elaborare un processo di consapevolezza di quanto le capita. D’altronde è l’Europa nel suo insieme a mostrare poca lucidità.
Quale canzone di Pino rappresenta meglio Napoli, per lei?
Scelgo Je so’ pazzo. E’ un invito alla complessità, che oggi viene banalizzata, evitata dai media che non hanno il tempo necessario per coglierla. La pazzia è la maschera di questa complessità.
A piazza Plebiscito va in scena un evento identitario irripetibile, eppure è un funerale.
A Napoli la morte non è mai privata. Non lo è per le persone comuni, figuriamoci per un simbolo come Pino Daniele. Qui se ti muore qualcuno apri innanzitutto le porte di casa, perché la morte è un’occasione di identità partecipata. E’ l’aspetto greco e ispanico di Napoli, dove la morte ricrea legami sociali, mentre in Occidente la si riduce a evento fisiologico. E poi Pino è anche riscoperta del nostro orgoglio, è qualcosa di grande che ci appartiene. E che giustamente rivendichiamo.
[tratto dal “Garantista”]